Nonostante tutto, restiamo convinti che il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti perderà la sfida con il contratto a termine come riformato dal Jobs Act Poletti 2.0, anche ammesso (e non concesso) che il Governo riesca a varare il testo, in tempo per realizzare una sinergia virtuosa con l’entrata in vigore, dal 1° gennaio, degli incentivi introdotti dalla legge di stabilità. Il Governo, infatti, ha deciso di presentare lo schema di decreto legislativo sul contratto di nuovo conio insieme a quello sugli ammortizzatori sociali (Naspi, ecc.) che presenta ancora qualche problema di copertura tanto da non avere ottenuto la “bollinatura” della Ragioneria generale dello Stato. Si corre il rischio, allora, che le risorse stanziate vadano ad incentivare tipologie di assunzione (ivi incluse le trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato) diverse dal nuovo contratto.
Considerando, poi, che il beneficio si applica, per un triennio, ai soli contratti stipulati nel 2015, la perdita di tempo nell’applicazione delle nuove disposizioni può tradursi anche in un rinvio delle assunzioni. Ma per quali motivi azzardiamo ipotizzare che continuerà ad essere preferito (salvo interventi manipolatori minacciati) l’utilizzo del contratto a termine? A nostro avviso, la possibilità di contare su di un rapporto di lavoro la cui risoluzione sia sottratta, per un triennio, al ricorso in giudizio, costituisce un dato che rende il contratto a termine acausale più competitivo, ancorché più oneroso e privo di benefici, rispetto ad altre forme, ivi incluso il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
L’orientamento della giurisprudenza sarà il banco di prova effettivo dell’interesse con cui le imprese si rivolgeranno al contratto di nuova istituzione, perché, allo stato, nessuno può escludere che si determini un’azione concertata (e “politicamente corretta’’) da parte della magistratura del lavoro per svuotare la riforma, riconoscendo, su istanza del lavoratore, la sussistenza di un licenziamento discriminatorio mascherato, anche quando l’atto venga diversamente motivato.
Ciò premesso, per come emerge dallo schema di decreto varato (in modo ancora informale) dal Consiglio dei ministri prenatalizio, la nuova disciplina del licenziamento presenta delle innovazioni sostanziali ed importanti che sarebbe sbagliato bruciare sul “falò della vanità” della polemica politica. A prescindere dall’handicap più grave del provvedimento (in questo caso a partire dalla delega) ovvero l’applicazione ai soli nuovi assunti, le norme contengono delle modifiche consistenti per quanto riguarda sia il licenziamento economico, sia quello disciplinare.
Innanzi tutto – con il solo correttivo dell’introduzione di soglie minime (per le indennità risarcitorie) a maggiore tutela della risoluzione di rapporti di breve durata – è prevista una generale riduzione quantitativa delle penali, non tanto per quanto concerne i valori assoluti e i tetti massimi, quanto piuttosto per i criteri automatici (un numero di mensilità per ogni anno di servizio) che il giudice è tenuto ad applicare. In pratica, mentre nella normativa previgente (e tuttora applicabile ai “vecchi’’ assunti) il giudice (laddove non ordinava la reintegra) poteva comminare l’importo più elevato della penale economica, anche a fronte di brevi anzianità di servizio, oggi esso è tenuto a moltiplicare – fino ad un tetto massimo e a partire da una soglia di accesso – il parametro fisso, in termini di mensilità, con gli anni di anzianità del lavoratore.
Da non sottovalutare, poi, le nuove disposizioni per quanto riguarda il tentativo di conciliazione nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Per i nuovi assunti, è abolito il tentativo obbligatorio previsto dalla legge n. 92/2012 per fare posto ad un’offerta di conciliazione ad iniziativa del datore il quale ha buone possibilità di evitare il processo erogando, insieme alle altre competenze, al lavoratore licenziato (che può restituire la somma) un ammontare, tramite assegno circolare, al netto da gravami, in misura sostanzialmente pari alla metà di quanto il lavoratore potrebbe percepire attivando il processo. L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore «comporta l’estinzione del rapporto e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia proposta».
Arriviamo ai casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, non ritenuti tali in giudizio. Il giudice potrà sanzionarli con la reintegra unicamente se sarà dimostrata (da chi?) «l’insussistenza del fatto materiale al lavoratore». La norma non si ferma qui, ma prevede, altresì, che resti «estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». Il che significa che, nei confronti dei nuovi assunti, al giudice vengono posti dei limiti rispetto ad una delle principali motivazioni che gli consentivano (e gli permettono ancora con i “vecchi” assunti) di dichiarare ingiustificato il licenziamento: la mancanza di proporzionalità tra l’inadempimento compiuto dal lavoratore (di cui fosse provata la sussistenza) e la sanzione “ultimativa” del licenziamento.
Parlare di “fatto materiale” significa che ad esso non occorre riconoscere, in ogni circostanza, quel rilievo giuridico che comporta la valutazione della proporzionalità con la sanzione. Tanto per fare un esempio: ammettiamo che un lavoratore sia in ritardo, magari di pochi minuti, rispetto all’orario di ingresso al lavoro. E che il fatto si ripeta. Se il datore di lavoro lo licenzia, il giudice potrà ancora considerare ingiustificato il provvedimento perché, a suo avviso, i ritardi sono modesti; ma la sanzione si limiterà ad un’indennità risarcitoria, rapportata all’anzianità di servizio, perché il fatto materiale sussiste. Perché sia ordinata la reintegra occorrerebbe dimostrare (da parte del lavoratore? Vi è anche un’inversione dell’onere della prova?) che, in realtà, il dipendente era puntuale.
Le due questioni sollevate sembrano, a chi scrive, ben più rilevanti di quanto previsto all’articolo 10 per i licenziamenti collettivi. Quale è il problema? Sappiamo che, terminata la procedura sindacale, il datore è autorizzato ad inviare le lettere di licenziamento nominative a propri dipendenti che ritiene in esubero (ai quali si applica l’indennità di mobilità o, a regime, l’Aspi). Così, in pratica, se non intervengono vizi di forma, il licenziamento collettivo si trasforma in licenziamenti individuali, per effettuare i quali l’imprenditore è tenuto a seguire dei criteri in concorso tra di loro (carichi di famiglia, anzianità di servizio, ecc.) nell’individuazione dei licenziati.
Questi ultimi possono ricorrere al giudice se ritengono violata, nei loro confronti, l’applicazione dei criteri previsti e fruire delle tutele sancite, inclusa la reintegra nel posto di lavoro. Il datore, però, è legittimato – questo i sindacati lo tacciono – a licenziare altri lavoratori al posto di quelli reintegrati. Che cosa cambierebbe a seguito delle nuove disposizioni del Jobs Act Poletti 2.0.? Che – rebus sic stantibus – per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del nuovo regime, la sanzione, nella fattispecie richiamata, sarebbe la medesima di quella prevista per il licenziamento economico individuale (ovvero esclusivamente una indennità risarcitoria) trattandosi di licenziamenti tipicamente economici e per di più preceduti (e tutelati) da un confronto in sede sindacale. La scelta sembra corretta.
Va, poi, fatto notare che, all’articolo 1, lo schema indica, come campo di applicazione, «i lavoratori che rivestano la qualifica di operai, impiegati o quadri» (neoassunti): si tratta di tipologie professionali chiaramente appartenenti al mondo del lavoro privato. Non sono citati i dirigenti: il che, è la prova evidente del fatto che i pubblici dipendenti sono esclusi. E che la loro inclusione, in quanto applicabile, avrebbe necessità di auspicabili ed auspicate norme di coordinamento.
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus