Di Matteo Renzi – come del suo Governo e della sua azione politica – si può pensare tutto il male possibile (chi scrive non appartiene certamente al club degli estimatori), ma un merito gli va riconosciuto: quello di indurre i propri avversari ad un arretramento precipitoso rispetto alle posizioni sostenute e difese con ostinazione per decenni. Almeno in materia di lavoro.
È stato così in occasione del decreto Poletti sui contratti a termine e l’apprendistato. La sinistra del Pd e la Cgil hanno lasciato passare – soprattutto in tema di rapporto a tempo determinato – una modifica che ha reso strutturale uno strumento di flessibilità molto importante. In questi giorni, per quanto concerne le nome sui licenziamenti, a partire dalla riunione della Direzione del Pd, saranno avanzate controproposte (rispetto a quelle annunciate dal premier) che fino a pochi mesi or sono sarebbero state respinte, con sdegno, dai loro stessi autori.
Analoghe considerazioni potrebbero essere svolte a proposito delle “disponibilità” manifestate dalla Cgil. In sostanza, agli oppositori interni di Renzi e a Susanna Camusso basterebbe che la reintegra non venisse bandita – salvo che per il recesso inficiato da motivi nulli o discriminatori – dal novero delle sanzioni contro il licenziamento individuale ritenuto illegittimo, ma che fosse ancora prevista dopo un certo numero di anni di anzianità di servizio, nell’ambito del percorso della tutela crescente.
A prescindere dal merito (invero discutibile), è indubbio riscontare delle novità in tale posizione politica. Questo fatto, almeno, pone ai commentatori di “storie italiane” una domanda: perché oggi è divenuto all’improvviso possibile confrontarsi (se il Governo lo volesse) su materie che fino a ieri erano ritenute inderogabili, indisponibili, non negoziabili, sacre alla Patria come il fiume Piave? Vi è stata forse una maturazione notturna dei gruppi dirigenti? Oppure gli esecutivi precedenti erano dei grandi “dissipatori di consenso”, incapaci di comprendere che l’innovazione covava sotto la cenere e che occorreva soltanto avere il coraggio di alimentarne la debole fiammella? O, più banalmente, Matteo Renzi sta dimostrando una volta di più che la sinistra “conservatrice” e la Cgil sono soltanto delle “tigri di carta”? È sufficiente sfidarle per accorgersi che non ruggiscono, non graffiano e non mordono. E pensare che – come nella favola – c’è voluto un ragazzotto toscano, un po’ sbruffone, per dimostrare che il re era nudo.
Tutto ciò premesso, andrebbe chiarito una volta per tutte se una disciplina del licenziamento individuale più flessibile – trascorsi 44 anni dallo Statuto – sarebbe utile al mercato del lavoro o se si tratta di un falso problema, costruito ad arte per colpire i diritti dei lavoratori. Ovviamente da una valutazione siffatta non possono essere estranei i numeri (del resto, sono aumentati i casi, anche in giurisprudenza, in cui alle statistiche viene attribuito un valore probatorio).
La nostra attenzione, allora, è caduta nuovamente su di una nota di lavoro predisposta dall’Isfol in vista di un incontro presso il Ministero del lavoro del 27 agosto u.s., convocato per valutare gli effetti della legge Fornero in materia di licenziamenti. Il documento, di cui abbiamo già parlato in questa rubrica, si propone di esaminare le conseguenze della nuova disciplina di cui alla legge n. 92/2012, per quanto riguarda il numero dei licenziamenti sia individuali che collettivi, mettendo a confronto il primo semestre del 2012 (quando non era ancora in vigore le legge) con i trimestri successivi fino al primo del 2014. Il nostro è un approccio diverso, rivolto a valutare l’ammontare dei licenziamenti individuali in quello stesso periodo, allo scopo di misurare la rilevanza sociale del fenomeno e l’importanza delle regole che lo disciplinano.
Purtroppo i dati contenuti nella nota, ancorché destagionalizzati, mostrano degli insuperabili limiti di fondo: il contesto anomalo di una profonda crisi economica e la mancata suddivisione tra la platea di imprese a cui si applica l’articolo 18 e quelle a cui non si applica.
Nonostante questi limiti oggettivi, il dato relativo alla somma dei licenziamenti individuali nei rapporti a tempo indeterminato, avvenuti nell’arco di tempo considerato è impressionante (ovviamente andrebbe messo a confronto con quello delle assunzioni): più di 1,5 milioni di casi. Si può concludere, quindi, che la materia è molto importante nella vita reale di tante persone.
Un rilievo curioso merita la statistica delle dimissioni, dal momento che, per potersi avvalere di questo diritto, i lavoratori e le lavoratrici devono seguire una procedura burocratica, sancita dalla legge Fornero allo scopo di contrastare il fenomeno delle c.d. dimissioni in bianco (nella logica di punirne cento o forse mille per educarne uno). Togliendo il dato del primo semestre del 2012, quando non era ancora in vigore la legge Fornero sono stati (al netto delle risoluzioni consensuali) più di 1,4 milioni i dipendenti costretti ad attivarsi per potersi dimettere. È dubbio che fossero stati obbligati tutti a sottoscrivere un foglio in bianco.
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus