Per certi settori della sinistra politica e sindacale l’età pensionabile è l’ultimo “Muro di Berlino”. Sono disposti a tutto pur di ridurre dei limiti che sono dettati, prima ancora che dagli equilibri finanziari dei sistemi pensionistici, dai trend demografici, dalla struttura della popolazione, dal rapporti giovani/anziani e dalle esigenze del mercato del lavoro. Così, il disegno di legge di stabilità 2016 si cimenta – tra le altre misure di carattere previdenziale, di cui la più scandalosa è senza alcun dubbio la settima salvaguardia per gli “esodati” – con la c.d. opzione donna. Di che cosa si tratta? Facciamo di seguito il punto. Nella riforma Maroni (legge n. 243 del 2004) a fronte di un inasprimento del requisito anagrafico (il c.d. scalone) venne concesso, in via sperimentale e fino a tutto il 2015, alle lavoratrici (dipendenti pubbliche o private e autonome) di optare per l’andata in quiescenza a 57 anni (58 se autonome) di età e 35 di contributi, a condizione che il relativo trattamento fosse interamente liquidato sulla base delle sole regole del calcolo contributivo. La norma – comportando, per via del meccanismo di calcolo, una penalizzazione economica intorno al 15-20% (in taluni casi anche superiore) – è rimasta “in sonno” per anni, fino a quando non è divenuta un’opzione appetibile dopo l’accelerazione impressa dalla legge Fornero all’età pensionabile di vecchiaia e anticipata. Ad utilizzarla, nel decennio in cui è rimasta in vigore, fino a quel momento erano state circa 18 mila lavoratrici; e pare che ci fossero oltre 8 mila domande (qualcuno parla addirittura di 13 mila) in attesa di potersene avvalere se fosse passata un’interpretazione diversa e più favorevole di quella allora sostenuta dall’Inps su input dei ministeri vigilanti.
In sostanza, il problema era il seguente: per spiegarlo occorre compiere – come si dice – un passo indietro. Negli anni successivi, la norma Maroni non era mai stata messa in discussione dalle leggi successivamente intervenute in tema di pensioni, salvo l’aver stabilito, al momento dell’entrata in vigore di quella specifica norma, l’applicazione dei requisiti derivanti dall’aggancio automatico all’incremento dell’attesa di vita (il che comportava l’aggiunta di qualche mese al requisito dei 57 e dei 58 anni) e dalla previsione della c.d. finestra mobile ovvero di un arco temporale (un anno per le lavoratrici dipendenti e 18 mesi per quelle autonome) da trascorrere, dopo aver maturato i requisiti, prima di poter accedere al trattamento pensionistico.
Ecco, allora, il punto controverso: entro la scadenza prevista della fine del 2015 (quando l’opzione sarebbe cessata) per potersi avvalere della prerogativa del pensionamento anticipato bastava aver maturato i requisiti (57 o 58 anni di età + 35 di contributi) oppure era necessario anche aver completato l’arco temporale della c.d. finestra mobile? Le diverse conseguenze sono evidenti: nel primo caso il 2015 sarebbe stato un anno a disposizione per quante, entro il 31 dicembre avessero maturato i requisiti (pur dovendo attendere il trascorrere del tempo della finestra per poter accedere al pensionamento. Secondo l’interpretazione fino ad ora vigente, sostenuta dalla Ragioneria generale dello Stato (RGS), entro il 31 dicembre 2015 doveva essere completata, invece, sia la partita dei requisiti, sia quella della finestra. Una eventuale modifica avrebbe richiesto quindi una copertura finanziaria. Così, l’Inps, pur essendo da tempo orientato a dare l’interpretazione più favorevole, aveva dovuto adeguarsi.
Ecco, dunque, che il ruolo del “vendicatore mascherato” è toccato al ddl di stabilità per il 2016, il quale, al comma 1 dell’articolo 19, estende la facoltà della opzione-donna «anche alle lavoratrici che hanno maturato i requisiti previsti della predetta disposizione, adeguati agli incrementi della speranza di vita entro il 31 dicembre 2015, ancorché la decorrenza del trattamento pensionistico sia successiva a tale data, fermi restando il regime delle decorrenze e il sistema di calcolo delle prestazioni applicati al pensionamento di anzianità» di cui si tratta. In buona sostanza, viene confermata la decorrenza imposta dalla c.d. finestra mobile, ma essa non incide più sul diritto all’esercizio dell’opzione e al conseguimento della pensione. Interessante, poi, è notare – lo fa la relazione tecnica – la stima del numero di lavoratrici che, nell’intervallo di decorrenza compreso tra gennaio 2016 e gennaio 2017, potrebbero usufruire del regime sperimentale: 17.500 dipendenti private; 7.500 lavoratrici autonome; 7.800 dipendenti pubbliche. Come si provvede, nel ddl, alla copertura finanziaria? Qui casca l’asino. Viene prorogato, per il biennio 2017 e 2018, il sistema di rivalutazione delle pensioni inizialmente limitato al 2014-2016. Anche questo passaggio merita una spiegazione. La citata disposizione, di carattere transitorio, prevede che la perequazione sia riconosciuta in funzione dell’importo complessivo (e non per fasce di importo) degli assegni corrisposti secondo un meccanismo per classi, applicando le aliquote di indicizzazione sull’intero ammontare della pensione, nelle seguenti misure: a) 100% dell’inflazione di riferimento pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo Inps; b) del 95% per quelli compresi tra tre e quattro volte il minimo; c) del 75% per quelli compresi tra quattro e cinque volte il minimo; d) del 50% per quelli compresi tra cinque e sei volte il minimo, e) del 40% per il 2014 e del 45% per ciascuno degli anni 2015 e 2016 per i trattamenti superiori a sei volte il minimo. Nel 2014 la rivalutazione del 40% era riconosciuta solo fino a sei volte il trattamento minimo.
Dal 2017 dovevano applicarsi di nuovo le classiche rivalutazioni, per fasce, di cui alla legge n. 388/2000, ovvero: a) rivalutazione del 100% dell’inflazione di riferimento per lo scaglione di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte il minimo; b) rivalutazione del 90% per lo scaglione tra tre e cinque volte; c) rivalutazione del 75% per lo scaglione superiore a cinque volte il minimo. Invece proseguirà per un altro biennio il sistema che avrebbe dovuto avere carattere sperimentale per il triennio precedente. Ciò significa che, per consentire a qualche migliaia di donne di andare in quiescenza prima dei 60 anni, verranno penalizzati i trattamenti di milioni di pensionati (quelli che percepiscono un assegno superiore a tre volte il minimo) che si avvarranno ulteriormente di un sistema di rivalutazione meno conveniente.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus