“Flessibilità” è una parola che scalda i cuori e scuote le coscienze, soprattutto quando si parla di pensioni, perché – diversamente da quanto avviene per la c.d. flexecurity in materia di lavoro (che è pur sempre osservata con sospetto dalla sinistra tradizionale) – tutte le forze politiche sono d’accordo nel denunciare quella che, a loro avviso, è un’eccessiva rigidità della legge Fornero del 2011, per quanto riguarda l’età di accesso al trattamento pensionistico. Con la flessibilità “politicamente corretta” si sono misurati in tanti: con diversi progetti di legge, tra i quali spicca quello a prima firma Damiano e Baretta fino alle proposte del presidente dell’Inps Tito Boeri.
L’idea generale è quella di prevedere un range anagrafico, compreso tra un’età minima ed una massima, all’interno del quale il lavoratore abbia la facoltà di scegliere il momento della quiescenza, individuando, all’interno, un requisito “neutrale” intermedio al di sopra del quale operi un incentivo a restare in attività, mentre al di sotto, sia previsto un disincentivo a ritirarsi. Le differenze tra le diverse proposte si riferiscono soprattutto alla misura della penalizzazione (per coloro che anticipano l’uscita) e dell’incentivo (per quanti decidono di restare al lavoro), oltreché alle modalità di calcolo della prestazione previdenziale, in quanto una delle possibili penalizzazioni (in verità assai poco probabile a causa dei suoi effetti sull’importo dell’assegno) consisterebbe nell’applicare, a coloro che si avvalgono dell’anticipo, il metodo contributivo anche per i periodi coperti dal retributivo.
Promesse di rivedere le regole della riforma Fornero le hanno avanzate in tanti, a partire dall’ineffabile Ministro del lavoro Giuliano Poletti, per finire al presidente del Consiglio, il quale aveva fatto l’esempio di una signora, già in cammino verso l’età anziana, che intende ritirarsi dal lavoro per “godersi il nipotino”. Alla fine, leggendo le dichiarazioni dell’Economia confidavamo che l’aspirazione alla flessibilità in uscita avesse fatto la stessa fine dei sogni: quella di smorzarsi al risveglio. Pier Carlo Padoan (Schioppan?), infatti, aveva affermato che, nella legge di stabilità 2016, indicata dai ‘”predicatori di flessibilità” ai futuri pensionati come la sede della “grande riparazione” dei torti subiti ad opera delle norme del 2011, non sarebbe stato affrontato il tema delle pensioni, mentre le risorse disponibili sarebbero state dirottate su altre priorità come la riduzione delle tasse. Insomma, sembrava esservi piena consapevolezza che, a copertura di una manomissione della riforma Fornero sulla questione cruciale dell’età pensionabile, occorressero stanziamenti significativi che il Governo preferiva impiegare altrove. Ed era giusto così, perché un intervento sull’età pensionabile, come quelli prefigurati, avrebbe avuto il solo scopo, neanche troppo recondito, di ripristinare – pur disincentivandolo – il famigerato pensionamento di anzianità, ripetendo, nella sostanza, l’errore compiuto dall’ultimo Governo Prodi, quando, al costo di 7,5 miliardi in un decennio, venne “superato” il c.d. scalone di cui alla riforma Maroni del 2003. Allora, di quel “salto in avanti”, l’opinione pubblica si era già “fatta una ragione”; così come è avvenuto adesso per quando riguarda i requisiti made by Fornero.
Le “anime belle” (“ovunque il guardo io giro”, negli emicicli delle Camere, ne vedo a bizzeffe) sostengono che occorre convincere la UE ad accettare che, nell’immediato, si spenda di più, a causa del maggior numero di pensionati, per risparmiare, domani, grazie all’erogazione di assegni più modesti. È una considerazione, questa, priva di fondamento, perché, a fronte di trattamento più ridotto, negli anni a venire, farebbero aggio, a parziale compensazione, gli anni in più di godimento della pensione. Per far “quadrare i conti” si renderebbero necessarie penalizzazioni rigorosamente attuariali tali da determinare, nel medio periodo, una insostenibilità sociale del sistema pensionistico. Inoltre, non ci sarebbe – come è stato eufemisticamente richiesto – di introdurre delle modifiche a “costo zero”. In ogni caso, nell’immediato, aumenterebbe, infatti, il numero dei pensionati e quindi la spesa pensionistica, che è pur sempre la sola spesa pubblica cresciuta durante gli anni della crisi (di 28 miliardi in più dal 2010 nonostante i tagli) a fronte di una diminuzione – di 24 miliardi – di quella complessiva. Non a caso, negli ultimi giorni, ha preso a circolare anche un documento del MEF sulle tendenze della spesa pensionistica (sanitaria e Tlc) che sottolinea i meriti dell’azione stabilizzatrice – non solo della spesa pensionistica, ma di quella pubblica – garantita dalle riforme, lungo uno scenario che si proietta intorno alla metà del secolo.
Dopo una fase iniziale di crescita, esclusivamente imputabile alla recessione economica che è proseguita anche nel 2014 – come certifica il Rapporto – la spesa per pensioni, in relazione al PIL, flette gradualmente fino a raggiungere il 15% nel 2027. Negli anni successivi, dopo un quinquennio di relativa stabilità, si apre una nuova fase di crescita che si protrae fino al 2044 dove il rapporto raggiunge il 15,5%. Da qui in poi, il rapporto spesa/PIL scende rapidamente attestandosi al 14,9% nel 2050 ed al 13,7% nel 2060, con una decelerazione pressoché costante. La flessione del rapporto fra spesa pensionistica e PIL, nella prima parte del periodo di previsione, è largamente spiegata dall’aumento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento e dalla applicazione, pro rata, del sistema di calcolo contributivo. La successiva fase di crescita, evidenziata nella parte centrale del periodo di previsione, è dovuta all’incremento del rapporto fra numero di pensioni e numero di occupati indotto dalla transizione demografica, solo in parte compensato dall’innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento. Tale incremento sopravanza – prosegue il documento – l’effetto di contenimento degli importi pensionistici esercitato dalla graduale applicazione del sistema di calcolo contributivo sull’intera vita lavorativa. La rapida riduzione del rapporto fra spesa pensionistica e PIL, nella fase finale del periodo di previsione, è determinata dall’applicazione generalizzata del calcolo contributivo che si accompagna alla stabilizzazione, e successiva inversione di tendenza, del rapporto fra il numero di pensioni e il numero di occupati.
Tale andamento si spiega grazie alla progressiva scomparsa delle generazioni dei baby boomers e all’adeguamento automatico dei requisiti minimi di accesso al pensionamento in funzione della speranza di vita. La descrizione dei trend di medio-lungo periodo della spesa per pensioni in rapporto al PIL evidenzia – ecco il passaggio-chiave del Rapporto – che il processo di riforma del sistema pensionistico italiano è riuscito, in misura sostanziale, a compensare i potenziali effetti della transizione demografica sulla spesa pubblica nei prossimi decenni. Infatti, come evidenziato in sede internazionale e, in particolare, dalla Commissione europea, l’Italia presenta una futura dinamica della spesa in rapporto al PIL significativamente più contenuta rispetto a quella prevista per la maggior parte dei paesi esaminati. Infatti, a fronte di un valore della spesa pensionistica in rapporto al PIL che decrescerà in media, per l’insieme dei Paesi dell’UE, di 0,2 punti percentuali nel periodo 2013-2060, nel caso dell’Italia il rapporto scenderà di 1,9 punti percentuali segnalando, pertanto, un rischio assai contenuto in termini di impatto dell’invecchiamento demografico sulla sostenibilità delle finanze pubbliche.
Tale andamento, conseguente alle riforme adottate, contribuisce a garantire nel medio-lungo periodo il percorso di rientro del debito pubblico italiano (significativamente più elevato rispetto alla media dei Paesi dell’UE) entro i parametri europei. In tale contesto chi ce lo fa fare di manomettere la riforma delle pensioni del 2011? Già la UE ci tiene sotto tiro per il progetto di manipolare la tassazione sulla casa; di certo, la Commissione non approverebbe una misura che metta in discussione quella “madre di tutte le riforme” (delle pensioni, appunto) che ci ha consentito qualche anno di libertà vigilata. Ma poi è arrivato il contrordine. Matteo Renzi, in una lettera ai militanti sull’Unità, ha sconfessato il Ministro dell’economia, invitandolo, insieme al collega Poletti, a studiare delle misure di flessibilità da inserire già nella legge di stabilità. Sommo gaudio dei sindacati. Gli incubi non vanno mai a dormire.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus