Le politiche del lavoro del Governo rischiano di andare in conflitto con quelle annunciate (da più parti e spesso in modo disordinato) sul versante della previdenza. Vediamo perché. A seguire il filo rosso del Jobs Act emerge con evidenza il progetto di ridimensionare il ruolo delle politiche passive, razionalizzandone l’azione, la durata e le finalità, in vista di un rafforzamento di quelle attive, non solo per quanto riguarda le prestazioni sociali (si sono infatti irrobustite le tutele che intervengono a conclusione del rapporto di lavoro), ma soprattutto per il ruolo dei nuovi strumenti istituzionali, a partire dall’Agenzia nazionale per l’occupazione in un contesto, annunciato, di revisione costituzionale per quanto riguarda i poteri dello Stato e quelli delle Regioni in materia, appunto, di politiche attive.
Il contratto di ricollocazione, per come si prefigura ora, rappresenta un tenero e fragile virgulto, un esile fiore di campo, di ciò che potrebbe essere domani, quando – come ha ribadito il premier – non sarà più tutelato il posto ma il lavoratore. Intendiamoci, di cammino da compiere ce ne è ancora tanto, ma, una volta tracciato l’indirizzo, sarebbe bene non strozzare nella culla quei progetti ambiziosi mediante politiche previdenziali e pensionistiche del tutto incoerenti e fortemente condizionate dalla coazione a ripetere le risposte tradizionali.
A guardare l’erba dalla parte delle radici si nota, infatti, un lavorio incessante da parte del lavoro, dell’Inps, dei gruppi parlamentari e, alla fine, dei grandi soggetti collettivi, sindacati e Confindustria, per ritornare al vecchio andazzo di caricare sul sistema pensionistico gli esuberi, il turn over e quant’altro. Al punto che un fatto di per sé positivo – un tempo assunto come obiettivo virtuoso di tutta la Ue – relativo all’incremento del tasso di occupazione nelle coorti anziane (55-65 anni) viene considerato, nel dibattito attuale, una sconfitta da attribuire agli effetti perversi della riforma Fornero. In sostanza, è ancora radicata l’idea che l’età ideale della pensione sia intorno ai sessant’anni e che la quiescenza – magari anticipata – sia l’unica risposta che è possibile e conveniente offrire a chi perde il lavoro mentre si avvicina a quell’età.
Oggi sono in discussione i requisiti dell’età pensionabile (soprattutto nel caso della vecchiaia anticipata) previsti dalla riforma Fornero. Già, nella legge di stabilità, fino a tutto il 2017, si è già provveduto al ripristino, di fatto, del pensionamento di anzianità (abrogando quel simulacro di penalizzazione economica che era sancito prima dei 62 anni di età). Viene da chiedersi, allora, se il Governo abbia intenzione di risolvere taluni problemi del mercato del lavoro (gli esuberi) non già con nuove e più adeguate politiche attive, bensì attraverso un massiccio ed oneroso ricorso a forme di prepensionamento, realizzate tramite la manomissione dei requisiti previsti, per l’età pensionabile, nella riforma del 2011.
Esiste un ampio schieramento di forze politiche e sociali che persegue tale disegno e tenta di renderlo “politicamente corretto” con il pretesto del c.d. pensionamento flessibile. Il fatto è che con la pretesa di restituire flessibilità al pensionamento (è questo il tema cha va per la maggiore nel dibattito sul futuro della previdenza, con la complicità di tutti i gruppi parlamentari ciascuno dei quali ha presentato il suo ddl in proposito) in realtà si finirebbe (usiamo il condizionale come un auspicio) per reintrodurre il pensionamento di anzianità (la peste bubbonica del nostro sistema pensionistico) “ferito a morte’’ ad opera della riforma Fornero del 2011.
Per rendersene conto è sufficiente considerare il pdl che sta andando per la maggiore, anche per l’autorevolezza di chi lo ha presentato (il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano e il sottosegretario Pier Paolo Baretta). L’impianto del provvedimento è il seguente: presi come punto di riferimento i 66 anni del trattamento di vecchiaia con 35 anni di contributi versati o accreditati, l’esercizio del diritto può avvenire all’interno di un range che va da 62 a 70 anni, con una penalizzazione o un incentivo del 2% l’anno a seconda che si anticipi o si ritardi la quiescenza, per un max, in ambedue le direzioni, dell’8%. Basta sommare 62 e 35 per rendersi conto che “l’assassino è tornato sul luogo del delitto”. Si arriva, cioè, a quella “quota 97” prevista nella legge che recepì il Protocollo sul welfare del 2007, quando Damiano era titolare del Lavoro.
Certo, ora è prevista una penale dell’8% che allora non era contemplata. Ma il vantaggio di andare in pensione prima (avvalendosi in pratica di un trattamento di anzianità) non è affatto compensato da una modesta riduzione dell’assegno. In tale contesto, il nuovo presidente dell’Inps Tito Boeri si avvale del ruolo e della “potenza di fuoco” del suo Istituto per diffondere proposte innovative, il cui “pacchetto” dovrebbe essere presentato nel corrente mese di giugno.
La telenovela ha avuto inizio con la proposta di un reddito minimo di cui sarebbero stati beneficiari i soggetti che perdono il lavoro dopo i 55 anni. L’importo di tale prestazione sarebbe stata ragguagliata all’assegno sociale. Questa idea – evidentemente in contraddizione con la prospettiva di politiche attive più dinamiche – si tiene insieme con altre proposte, più correttamente attribuibili al Ministero (ereditate, talune, persino dalla gestione di Enrico Giovannini): la c.d. staffetta anziani/giovani; il prestito anticipato di parte del trattamento pensionistico, da restituire a rate una volta maturati i requisiti; per concludere con una probabile settima sanatoria pro esodati, visto che le loro associazioni di categoria lamentano 50 mila casi ancora bisognosi di salvaguardia (nonostante che all’indagine conoscitiva, promossa per via telematica dalla Commissione Lavoro del Senato, abbiano risposto in meno di mille). Come finanziare tali misure? Strada facendo si sono prese a riferimento a diverse soluzioni. Dapprima il “tesoretto” che il Governo aveva individuato mercanteggiando sul deficit con la Ue. Ma queste risorse, dopo la sentenza n. 70 della Consulta, sono passate ad altra destinazione.
Di “tanta speme” (direbbe il poeta) resta in campo soltanto il progetto maniacale di Tito Boeri: ricalcolare con il metodo contributivo i trattamenti erogati con quello retributivo. Da qui è nata una campagna sulla c.d. trasparenza rivolta a convincere l’opinione pubblica del fatto che le pensioni retributive sono furti legalizzati a danno dei giovani costretti a condizioni miserevoli, anche in quiescenza, a causa del calcolo contributivo. Sono cominciate, quindi, le liste di “proscrizione” in cui vengono sottoposte alla gogna del ludibrio pubblico e dell’invidia sociale le categorie i cui trattamenti non sarebbero coperti dai contributi versati.
Non si capisce, ancora, dove voglia arrivare questa persecuzione: ad un obiettivo minimo, per sua natura di carattere temporaneo, come potrebbe essere quello di individuare un percorso più equo per la ritenuta di un contributo di solidarietà da applicare sul differenziale tra i due conteggi (nel caso in cui quello retributivo sia più favorevole) oppure, addirittura, ad un intervento strutturale di applicazione retroattiva del sistema contributivo anche alle pensioni in essere? A pagare il fio dovrebbero essere gli assegni più elevati, anche se non se ne comprendono le ragioni visto che dei supposti benefici del calcolo retributivo ha fruito la grande maggioranza dei trattamenti in essere ed in particolare le pensioni di importo medio e medio alto, in larga misura erogate a titolo di anzianità a persone ancora in età inferiore a 60 anni, per le quali, oltre al vantaggio del calcolo, si aggiunge quello della durata dell’erogazione.
Nei giorni scorsi, laconicamente, l’Inps ha voluto “aprire le porte” sulle pensioni dei magistrati che, mediamente, sono d’importo superiore a 100 mila euro l’anno (non si dimentichi lo stipendio del Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, nel disordine della demagogia imperante, è divenuto il massimale dei trattamenti della PA e non solo). Bene. l’Inps ha dovuto riconoscere che «l’eventuale ricalcolo con il sistema contributivo non ridurrebbe di molto l’importo degli assegni perché tale metodo premia proprio chi accumula molti anni di contributi e ritarda il pensionamento» (nel caso dei magistrati in media fino al 70° anno).
Proprio così: il sistema retributivo non è una sorta di Eldorado se messo a confronto con gli stenti e lo stridore di denti imposti dal contributivo. Un lavoratore “povero” diventa un pensionato “povero” in ambedue i sistemi. Un lavoratore ad alto reddito, invece, è maggiormente penalizzato, sul piano del rendimento dei suoi contributi, dal calcolo retributivo che non da quello contributivo. Nel primo sistema, infatti, i lavoratori effettuano i versamenti sull’intera retribuzione percepita, ma il rendimento è pari al 2% per ogni anno di servizio fino a 45 mila euro di stipendio. Per le quote eccedenti, invece, l’aliquota è decrescente. Nel retributivo, inoltre, la pensione è sottoposta ad un tetto massimo di 40 anni: quelli lavorati in più subiscono il prelievo sulla retribuzione, ma “non fanno” anzianità. Nel regime contributivo, invece, contano tutti i versamenti effettuati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione migliore, perché il montante accreditato viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione più elevato in relazione all’età del pensionamento.
I lavoratori con retribuzioni maggiori, inoltre, versano i contributi soltanto su di un massimale attualmente di circa 100 mila euro l’anno (al di sopra non sono previste ritenute e, ovviamente, le quote ulteriori non sono considerate retribuzione pensionabile, mentre viene favorita la loro allocazione ad una forma di previdenza complementare). Ciò spiega perché sarebbero i redditi più elevati e le carriere più lunghe ad essere premiate (o quanto meno risparmiate) dal ricalcolo. Non a caso il legislatore ha sempre scoraggiato (nella legge di stabilità del 2015 ha addirittura punito) chi si fosse avvantaggiato applicando il calcolo contributivo. Ma ormai è inutile aspettarsi un qualche criterio di coerenza. È la solita storia del lupo e dell’agnello. Nell’Italia della deriva demagogica non c’è alcun bisogno di argomenti fondati. Anche l’Accademia si adegua.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus