L’Inps si ostina a pubblicare le “liste di proscrizione” dei Fondi e delle Gestioni che erogherebbero ai loro pensionati (sulla base del calcolo retributivo) trattamenti più favorevoli rispetto ai contributi versati. Una particolare attenzione è stata rivolta a intere categorie di lavoratori dipendenti appartenenti agli ex Fondi speciali, primi fra tutti i ferrovieri. Ovviamente, nel sollevare nei loro confronti l’indignazione popolare, gli “inquisitori” di via Ciro il Grande hanno dimenticato di aggiungere alcune motivazioni specifiche tra le quali gli “sconti” sull’età pensionabile per il personale viaggiante, in quanto adibito a mansioni ritenute usuranti e soprattutto l’avvenuto rovesciamento, nel corso dei decenni, del rapporto tra iscritti e pensioni.
Trent’anni or sono il Fondo aveva più di 200 mila iscritti ed erogava poche decine di migliaia di pensioni. Essendosi, per le note ragioni, capovolto il rapporto, ora il Fondo incassa un miliardo di entrate contributive, e spende 4,5 miliardi a titolo di prestazioni. La differenza, anno dopo anno, viene ripianata dalla fiscalità generale tramite l’ammontare dei trasferimenti all’Inps, a titolo di assistenza. In pratica, stante il finanziamento a ripartizione, i contribuenti italiani pagano i 4/5 dei trattamenti riscossi ferrovieri. In una situazione come questa sembra evidente che il problema del Fondo (ex Tesoro ora Inps) è ben più serio ed irrisolvibile dell’impegno profuso andando a spulciare la contribuzione versata dai singoli lavoratori rispetto all’assegno percepito e liquidato a norma di legge.
Ma l’universo previdenziale del “BelPaese” ha pure tante altre storie da raccontare. Se mai verrà il turno dei lavoratori autonomi – le categorie a cui venne esteso il calcolo retributivo nei primi anni ’90 con un voto unanime del Parlamento – ne vedremo delle belle quanto a squilibrio strutturale tra contributi versati e prestazioni erogate; tanto che, adesso, il colossale avanzo della “Gestione separata” (non dovuto al sistema contributivo ma ad un rapporto necessariamente favorevole tra iscritti e pensioni, dal momento che una Gestione istituita nel 1996 per ora incassa solo contributi senza erogare trattamenti se non qualche modesta pensione supplementare a pensionati di altri Fondi che hanno continuato a lavorare, dopo la quiescenza, con rapporti di collaborazione) serve solo in parte a coprirne – nella logica del bilancio unitario dell’Ente – i crescenti disavanzi, senza che si profili alcuna soluzione di risanamento né sul versante delle entrate (l’aumento previsto delle aliquote è insufficiente), né su quello delle uscite (c’è forse qualcuno che medita di tagliare le pensioni agli artigiani?).
O forse vogliamo continuare a prendercela – senza valutare minimamente quanto avviene in altri Paesi – con i militari e le Forze dell’ordine dimenticando che, a parte il malvezzo delle promozioni dell’ultima ora, questi soggetti sono sottoposti a particolari condizioni di lavoro e di vita? Eppure non è trascorso troppo tempo da quando tutto il Parlamento, nella trascorsa legislatura, insorse a difesa delle “stellette”, al grido di “no pasaran”, contro uno schema di decreto delegato in applicazione della riforma Fornero che ritoccava verso l’alto l’età pensionabile.
Sono queste le contraddizioni di un sistema pensionistico, istituito secondo un modello occupazionale-corporativo e sulla base di processi di aggregazione e di estensione che, poi, grazie ad un ventennio di riforme, hanno percorso un difficile, spesso inadeguato e tradivo, processo di omogeneizzazione, che ha fatto del nostro uno dei sistemi pensionistici più uniformi della UE.
Ebbene, tante “anime belle” pretendono di fare giustizia con l’autodafè dell’applicazione del calcolo contributivo nei confronti di coloro (si tratta dei titolari di poco meno del 90% delle pensioni in essere) che hanno avuto liquidato il loro assegno sulla base delle regole vigenti in quel momento, come se su di loro gravasse una “responsabilità storica” da cui discolparsi davanti alle generazioni future. Ciò senza consentire neppure alle persone un congruo periodo di età lavorativa (a ciò corrisponde, di solito, il criterio del pro rata) nel quale poter recuperare il cambiamento delle regole in base alle quali hanno compiuto le loro scelte di vita.
Agli effetti critici della legge Fornero per quanto riguarda l’inadeguatezza di un periodo di transizione per l’entrata in vigore delle nuove regole, si intende aggiungere la modifica retroattiva delle vecchie; anche a costo di rendere inutile ed eccentrico il senso stesso della iniziativa con cui l’Inps vuole responsabilizzare ciascun lavoratore rendendolo edotto dei contributi versati e della pensione che potrebbe domani conseguire.
Eppure – a voler guardare i problemi senza essere tentati da sentimenti di vendetta piuttosto che di giustizia e di ragionevolezza – varrebbe la pena di chiedersi che senso abbia una relazione di corrispettività – che secondo la migliore dottrina non esiste – tra contributi versati e prestazioni in un sistema a ripartizione nel quale, cioè, le risorse ricavate dai primi servono a finanziare i trattamenti previdenziali delle generazioni precedenti, mentre le pensioni dei contribuenti di oggi lo saranno da parte dei contribuenti di domani.
Anche il sistema contributivo continua a “funzionare” a ripartizione (solo gli esteti e i visionari si azzardano a parlare di “capitalizzazione simulata”). Il meccanismo di calcolo (montante contributivo rivalutato secondo il Pil per i coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età del pensionamento) è soltanto un modo per determinare l’importo dell’assegno. Ma l’equilibrio del sistema – negli anni a venire anche quando il contributivo andrà pienamente a regime – dipenderà dal rapporto tra il numero dei contribuenti e quello delle pensioni erogate ovvero dalla “solita vecchia storia” dell’equilibrio tra entrate (siano esse contributive o fiscali) ed uscite (la spesa pensionistica nel suo rapporto con il Pil) e quindi dalle dinamiche demografiche ed occupazionali.
Non ha senso, dunque, attribuire ad un sistema di calcolo il destino dei pensionati italiani: l’abbondanza immeritata con il retributivo; il freddo e lo stridore di denti con il contributivo. Se così fosse non si spiegherebbe perché in Italia vi siano circa 4 milioni di pensioni retributive integrate al minimo (finanziate dalla fiscalità generale con oltre 20 miliardi l’anno). O che si spendano ogni anno più di 9 miliardi per finanziare le baby pensioni. Da ultimo anche il Ministro Padoan si è iscritto alla “loggia” della corrispettività dichiarando che i soli diritti acquisiti sono quelli coperti dai versamenti. Come la mettiamo, allora, con la contribuzione figurativa? O con la copertura previdenziale delle prestazioni a protezione del reddito? Come vogliamo considerare gli assegni di carattere assistenziale (per un onere di ben oltre i 20 miliardi annui a carico della fiscalità generale) a poveri ed invalidi?
La solidarietà sociale è andata più avanti della logica assicurativa anche se da essa – nel modello Bismark – ha avuto lontane origini. Ma c’è di più. Quali sono i trattamenti più squilibrati, se si dovesse prendere per oro colato il sinallagma contributi versati/prestazioni ? Secondo uno studio (tab.2) di Fabrizio e Stefano Patriarca, (pubblicato – guarda caso – su La Voce.info –) «I dati evidenziano una situazione di grande iniquità distributiva nella quale lo Stato trasferisce risorse ingenti per sostenere le pensioni più opulente e godute in età anteriori a 60 anni. Si è osservato da alcune parti che le pensioni di anzianità sarebbero state principalmente la “compensazione” al lavoro operaio e precoce. Non è così: nel milione di persone circa che è andato in pensione di anzianità, tra il 2008 e il 2012 compresi i dipendenti pubblici e gli autonomi (per un onere complessivo di 24 miliardi, ndr), le pensioni inferiori ai 1500 euro mensili, che comprendono verosimilmente quelle degli operai, sono solo il 18 per cento, ed hanno complessivamente il 10 per cento della spesa pensionistica».
In sostanza, come dimostra il grafico 1, non sono i trattamenti più elevati a determinare lo scostamento più evidente tra contributi e prestazioni, ma quelli di valore intermedio, soprattutto in conseguenza non del loro tassi di sostituzione ma della durata del periodo di godimento, in quanto liquidate in età anteriori ai 60 anni a fronde di un’impennata dell’attesa di vita. Pur con tutti i suoi difetti, infatti, il sistema retributivo “penalizza” sul versante dei rendimenti, le retribuzioni più elevate al di sopra di 40-45mila euro annui.
Oltre questo ammontare il tasso di sostituzione teorico dell’80% della retribuzione di riferimento decresce fino al 60%. Tutto il contrario avviene nel modello contributivo che valorizza la permanenza al lavoro, tanto che, all’inizio degli anni 2000 si è proibita l’opzione del passaggio dal retributivo al contributivo, mentre nella legge di stabilità del 2015 si sono imposte le regole del retributivo anche a coloro che, rimanendo al lavoro e versando fior di contributi, si erano legittimamente avvalsi del sistema misto introdotto dal 2012 dalla riforma Fornero. Insomma, basta con i luoghi comuni! I meccanismi di calcolo della pensione presentano, ognuno per sé, differenze, vantaggi e svantaggi. Sia il retributivo che il contributivo sono in grado di garantire pensioni adeguate ad una sola condizione: a fronte di requisiti anagrafici e contributivi che assicurino una relativa sostenibilità al sistema.
I milioni di pensionati attualmente inchiodati a livello del minimo di oggi sono i soggetti che hanno percepito modeste retribuzioni ed avuto storie lavorative discontinue, frastagliate, svolto lavori saltuari e percepito retribuzioni modeste, a cui non è bastato che la loro retribuzione pensionabile fosse quella dell’ultimo periodo di attività.
È questo il medesimo handicap di tanti giovani d’oggi, i quali, tra l’altro, sono ulteriormente penalizzati da un sistema pensionistico che non si è dato carico di prevedere alcun meccanismo di solidarietà infra–generazionale. Insomma, sia il modello retributivo che quello contributivo assumono come centrale un soggetto sociale che oggi va scomparendo dal mercato del lavoro. Questo è in limite a cui sarebbe bene provvedere, al più presto. Ma il futuro da pensionati dei giovani lo si costruisce, oggi, da lavoratori. Il contributivo non ha alcuna colpa. Un lavoratore povero sarà anche un pensionato povero. Se i presunti fasti del retributivo fossero ancora la regola del sistema, i co.co.co. di oggi non diventerebbero mai pensionati benestanti domani, grazie al marchingegno del conteggio; il loro futuro sarebbe quello di pensionati al minimo o di percettori dell’assegno sociale. Se poi si deve ricorrere, nuovamente, ad un contributo di solidarietà, lo si faccia nei termini di progressività e temporaneità indicati dalla Consulta. Ma, per favore, si evitino le pantomime inutili e giacobine del ricalcolo e il carattere punitivo che esse avrebbero. Come se si dovesse ripristinare chissà quale giustizia e riparare a chissà quali torti. Meglio andare a caccia di farfalle sotto l’Arco di Tito.
Grafico 1
Tabella 2 – Pensioni di anzianità dipendenti e autonomi liquidate dal 2008 al 2012 per classi di reddito inferiori e superiori a 1500 euro mensili Elaborazioni su dati Inps Inpdap
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus