Tra pochi giorni sapremo se la disciplina del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (con annesse nuove regole per il recesso) è destinata, dopo le vicende dell’elezione del Capo dello Stato, a #cambiareverso per meglio rispondere agli equilibri interni determinatisi nel Pd e nella maggioranza. La sinistra dem, attraverso Cesare Damiano – una personalità che, in materia di lavoro, non ha solo autorevolezza e competenza, ma anche, come presidente della XI Commissione della Camera, un ruolo istituzionale importante – ha capito che su questo decreto i giochi sono fatti, ma chiede, ugualmente e con forza, un segnale, come l’esclusione dei licenziamenti collettivi dall’applicazione delle nuove regole.
Si tratta di una pretesa priva di senso, perché, una volta espletata e terminata la procedura, in fase sindacale e amministrativa, prevista per i licenziamenti collettivi, nel momento in cui il datore di lavoro è “autorizzato” a dare esecuzione agli esuberi, individuando i singoli lavoratori coinvolti, si apre una fase di licenziamenti individuali per motivo oggettivo, correttamente sanzionabili, se ritenuti ingiustificati (in questo caso per vizi formali o per violazione dei criteri di selezione), con l’indennità risarcitoria come quelli, di carattere individuale, appartenenti alla medesima tipologia. Ma la politica ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Staremo a vedere. Anche perché, come è stato fatto notare da Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di domenica 8 febbraio, le modifiche che intervengono nell’ambito di una maggioranza parlamentare finiscono per riflettersi anche sulle politiche del Governo che da quella maggioranza è sorretto.
Non a caso, in tema di lavoro (e di welfare) sembra di essere tornati al 2007, ai tempi dell’Unione, quando talune forme contrattuali esistenti in tutta Europa da noi venivano messe al bando in nome della lotta alla precarietà. A stare alle anticipazioni, pare che il 20 febbraio il Consiglio dei ministri varerà un schema di decreto delegato riguardante le tipologie contrattuali nel quale sarà previsto non solo il “superamento” (il termine usato nella delega dà l’idea della gradualità) delle collaborazioni. Questa volta il “crucifige” toccherebbe a taluni rapporti atipici come (a quanto si dice) l’associazione in partecipazione, il lavoro ripartito e quello intermittente, i quali subirebbero l’onta dell’abrogazione.
Come se non bastasse, si parla anche di una revisione dell’importante riforma del contratto a termine, attraverso la riduzione a 24 mesi dell’utilizzo sottratto al vincolo della causalità e a tre le possibili proroghe. Sarebbero errori gravi, questi, perché è vana speranza pretendere di incanalare le assunzioni delle imprese verso il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti usando il bastone dei divieti e delle abrogazioni insieme alla carota degli incentivi, che, nella legge di stabilità sono certamente robusti, ma che riusciranno soltanto a “drogare” il mercato del lavoro, mandandolo in crisi d’astinenza quando le risorse finiranno. C’era comunque d’aspettarselo. Nel Jobs Act era compreso, neanche troppo nascosto, il solito filone di politica del lavoro ostile al Pacchetto Treu e alla legge Biagi. Dimenticando, però, che sono stati proprio quei provvedimenti a consentire – prima della crisi e a fronte di incrementi modesti del Pil – otto anni di crescita ininterrotta dell’occupazione, i cui esiti non sono stati del tutto cancellati, nonostante la durezza della recessione e la sua durata per un numero equivalente di anni. Siamo sempre lì, a contemplare l’illusione della scorciatoia normativa: la “cattiva” occupazione sparisce se si abrogano le “cattive” leggi. Come se fosse possibile vincere una febbre maligna gettando dalla finestra il termometro che l’ha appena misurata. Il sillogismo dei “cattivi maestri” è sempre lo stesso: “i “padroni” (loro li chiamano così) devono avere dei dipendenti; per farlo devono essere “spinti” ad usare solo legge “buone” perché i “Bad Acts” sono abrogati; così, i lavoratori vengono assunti a tempo indeterminato”. E poiché si sono resi conto che, alla fine, i “padroni” preferiscono non assumere, piuttosto che farlo come pare a loro, i “cattivi maestri” arrivano al punto di costringere lo Stato a concorrere alla retribuzione dei lavoratori in regime lavoro a tempo indeterminato.
Non è un caso che nella legge di stabilità “a gloria” del contratto di nuovo conio (con tutele più sostenibili in tema di recesso) è operante un regime di robusti incentivi che, in pratica, consentirà alle imprese di accollare al solito Pantalone la retribuzione di un intero anno (sui tre previsti), per gli assunti nel 2015. Tutto ciò, per non accettare un principio intuitivo se solo si valesse osservare la realtà senza gli occhiali dell’ideologia: i rapporti flessibili, regolati dalla legge Biagi, non agevolano la precarietà, ma favoriscono l’occupazione regolare realizzando quanto stava scritto nel Libro bianco del 2001: «I mutamenti che intervengono nell’organizzazione del lavoro e la crescente spinta verso una valorizzazione delle capacità dell’individuo stanno trasformando il rapporto di lavoro. Ciò induce a sperimentate nuove forme di regolazione, rendendo possibili assetti regolatori effettivamente conformi agli interessi del singolo lavoratore ed alle specifiche aspettative in lui riposte dal datore di lavoro, nel contesto d’un adeguato controllo sociale». In sostanza, le norme sui contratti atipici non sono dei “regali” alle aziende, ma servono per regolare adeguatamente, nel reciproco interesse delle parti, situazioni lavorative specifiche, le cui modalità di esecuzione non sono riconducibili a tipologie standard. Ad abolirle si creano soltanto maggiori problemi per i datori che, a loro volta, si ripercuotono negativamente sulla disponibilità ad assumere. Ma non c’è nulla da fare: per la sinistra non sono le leggi che devono servire alla società. È la società che deve adattarsi a delle leggi ispirate dall’ideologia.
Ciò premesso, in materia di lavoro, non possiamo non notare che anche in tema di pensioni il dibattito sembra essere tornato al 2007, ai tempi degli improperi contro il c.d. scalone di Roberto Maroni, il cui “superamento”, ad opera del Governo Prodi, costò ben 7,5 miliardi in dieci anni. Oggi sono in discussione i requisiti dell’età pensionabile previsti dalla riforma Fornero. Pochi giorni or sono, “dagli atri muscosi e dai fori cadenti” in cui era stato relegato nella gestione del Jobs Act, è ricomparso, addirittura, il ministro Giuliano Poletti pronto a sostenere che il sistema pensionistico ha bisogno di flessibilità, in mancanza della quale gravi saranno le conseguenze sociali della riforma del 2011. A parte che sono stati ripescati, chissà dove, 46 mila nuovi esodati in attesa di tutela (ma il Senato non aveva votato un odg con il quale si invitava il Governo a chiudere questa partita e a risolvere altrimenti il problema?); a prescindere dal fatto che, nella legge di stabilità, fino a tutto il 2017, si è già provveduto al ripristino del pensionamento di anzianità (abrogando quel simulacro di penalizzazione economica che era previsto) è bene sapere se il governo ha l’intenzione di risolvere taluni problemi del mercato del lavoro (come la fuoriuscita dall’intervento degli ammortizzatori sociali) dando corso ad un’importante iniziativa di prepensionamenti ed è corretto pretendere che lo dica espressamente. In sostanza, resta radicata l’idea che ad una certa età, se si perde il lavoro, l’alternativa rimanga soltanto quella del pensionamento. Alla faccia del contratto.
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus