Dovrei essere grato ai vertici di Cgil, Cisl e Uil: con il loro documento sulle relazioni industriali, mi hanno riportato indietro di oltre 50 anni, alla mia giovinezza, quando all’inizio degli anni ’60 frequentavo le lezioni di Giuseppe Federico Mancini e preparavo l’esame di diritto del lavoro. Allora, i libri di testo non erano voluminosi come adesso. Addirittura, il diritto sindacale non aveva ancora un profilo autonomo al punto da meritare un testo specifico (in verità, anche adesso è parte integrante, diversamente dal diritto previdenziale, dei manuali di diritto del lavoro). C’era una dispensa ciclostilata – curata chissà da chi – che raccoglieva le lezioni svolte in materia.
L’argomento principale riguardava l’interpretazione dell’articolo 39 della Costituzione, a cui era aggiunto il commento del disegno di legge attuativo (insieme all’articolo 40) ritenuto più organico e completo, presentato dal Ministro del lavoro (nei Governi De Gasperi VII e VIII e Pella, dal 1951 al 1954) Leopoldo Rubinacci. La conclusione era la seguente: non essendo mai stata approvata la legge ordinaria attuativa del regime costituzionale previsto, il diritto sindacale, con i suoi istituti, veniva ricondotto nell’ambito del diritto civile: l’associazione non riconosciuta ai sensi dell’articolo 36 e seguenti del codice civile; il contratto di diritto comune; il rapporto di mandato. In sostanza: hic sunt leones. Il problema dell’efficacia generale dei contratti – in assenza dei dispositivi attuativi – ossessionava tutti gli operatori, al punto da mettere in campo – con la legge n. 741 del 1959 – un procedimento sostitutivo che superò l’esame della Consulta, unicamente in ragione della sua transitorietà. Intendiamoci: l’assillo politico non era privo di giustificazioni, in quel contesto di allora caratterizzato da sottosalario e violazione delle norme sul lavoro, specie in alcune zone del Paese, l’attenzione al principio dell’efficacia erga omnes. Ben presto il problema finì in un cul de sac, da cui non è più uscito. Nel loro insieme, i sindacati non esprimevano certamente una “spinta propulsiva” per l’attuazione dell’articolo 39. La Cisl era assolutamente contraria. La Cgil favorevole solo a parole. La confederazione socialcomunista, dopo aver subito le scissioni e la discriminazione al tavolo delle trattative, avrebbe avuto tutto l’interesse a rientrare in gioco nell’ambito delle rappresentanze unitarie costituite in proporzione degli iscritti, ma temeva sia le conseguenze intrusive dello Stato nella vita associativa (attraverso la registrazione, la formazione della rappresentanza abilitata a trattare un rinnovo con validità erga omnes, la verifica delle iscrizioni ), sia – e soprattutto – il fatto che l’attuazione dell’articolo 39 non poteva prescindere da quella – politicamente delicata – del successivo articolo 40 (il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano).
In verità, sull’impianto complessivo dell’articolo 39 era (ed è) rimasta molta polvere del regime corporativo. Il legislatore costituzionale, cioè, essendosi trovato a gestire la transizione dal regime fascista alla democrazia ed avendo a che fare, in materia di lavoro, con un impianto consolidato, fatto di norme concretamente applicate nelle aziende, si limitò, in larga misura, a riformulare l’ordinamento previgente alla luce dei sacri principi della libertà e della democrazia e ad immaginarne (non era facile per quei tempi) una concreta operatività ispirata al pluralismo. Ma rimase ben visibile la sua preoccupazione di rivisitare in altre forme le questioni che il modello corporativo – a suo modo – aveva affrontato e risolto. Durante il fascismo i sindacati erano praticamente una branca della pubblica amministrazione? Nell’Italia democratica riprendevano piena libertà, ma continuava a sussistere il problema di conferire loro una personalità giuridica (ancorché) di diritto privato, sottoposta al solo requisito di uno statuto interno a base democratica, al fine di definirne una precisa identità, secondo quanto dettato dalla legge ordinaria che avrebbe dovuto applicare la norma costituzionale. L’ambito della categoria, come riferimento della contrattazione, rimaneva centrale come lo era stato nel precedente contesto in forza di un pregiudizio ideologico divenuto norma (il corporativismo, appunto, come forma di organizzazione dello Stato). Infine, il legislatore costituzionale era ossessionato dall’esigenza di individuare un meccanismo che, persino in un contesto di possibile pluralismo sindacale, consentisse di conferire un’efficacia erga omnes ai contratti collettivi, altrimenti applicabili – secondo i principi generali del diritto comune – soltanto agli iscritti alle organizzazioni stipulanti. In buona sostanza, per quanto riguarda l’ordinamento sindacale il fascismo aveva promosso ed orientato un processo evolutivo, già in corso dopo la conclusione della Grande Guerra, ma il cui sbocco era ancora incerto. Il legislatore costituzionale, dal canto suo, aveva confermato, in alcuni suoi aspetti, quell’ordinamento – di cui il contratto nazionale di categoria era l’architrave – pur andando “a risciacquare in Arno” i panni della democrazia anche per il sindacato (il che non era un cambiamento da poco). Comunque sia, alla fine degli anni ’50 l’ordinamento sindacale operava in un contesto giuridico diverso da quello previsto dalla Costituzione (extra legem ma non contra legem), alimentando un clima di “speranze deluse”, per tutti quegli aspetti – allora ritenuti essenziali – di cui la mancata attuazione dell’articolo 39 della Carta del 1948 aveva privato il sindacato italiano. Man mano che il nuovo ordinamento intersindacale si consolidava e si stabilizzava in tanti – compresa la cultura giuridica che, fino a quel momento, si era profusa in tante elucubrazioni de jure condendo, sulla scia dell’ultimo disegno di legge attuativo del disegno costituzionale, prestando invece ben poca attenzione a quanto nel frattempo si veniva affermando nei fatti – tornarono a ricordarsi del vecchio Hegel e del fondamento della sua filosofia secondo la quale “ciò che è reale è anche razionale”.
La svolta impetuosa che aveva permeato il modello delle relazioni industriali fu ben presto accompagnata da una profonda rivisitazione degli studi giuridici. Ne furono principali protagoniste due “scuole’’ prestigiose di diritto del lavoro: quella bolognese, raccolta intorno al mio Maestro, il prof. Giuseppe Federico Mancini e quella di Bari fondata dal prof. Gino Giugni. Quest’ultimo fu autore della – Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, edito da Giuffrè nel 1960 – un saggio che dischiuse per il nascente diritto sindacale orizzonti paragonabili a quelli che Galileo Galilei aprì agli occhi dei suoi contemporanei non solo e non tanto in materia di astronomia, ma come vera e propria visione del mondo e della questione esistenziale dell’Uomo. Quando il libro fu pubblicato, Gino Giugni aveva poco più di trent’anni ed era forse presago dell’avvenire che lo attendeva nei decenni seguenti, perché nessuno, a quell’età, ha tanta forza morale di sfidare apertamente i poteri consolidati e l’autorevolezza necessaria a farsi dare ragione (come soleva dire Luciano Lama, non è importante avere ragione, perché il difficile sta tutto nel farsela dare).
L’incipit del libro portava subito il lettore al cuore del problema: «Il diritto del lavoro vive, in Italia, da più di dieci anni – scriveva Giugni – in una condizione di attesa, di “speranze deluse”: attesa della legge sindacale, che, con l’applicazione del dispositivo costituzionale, sciolga il nodo gordiano dei mille e più problemi nascenti dalla vita quotidiana delle istituzioni collettiva. La vacatio legislativa, la carenza di un intervento atto a saldare un cerchio di legalità rimasto, nell’apparenza almeno, aperto in uno dei suoi punti essenziali, hanno esercitato una profonda influenza sugli stessi orientamenti delle ricerche; così – proseguiva – la maggior parte degli studi pubblicati negli ultimi anni, quando non abbiano avuto come oggetto il rapporto individuale di lavoro, si sono volti alla prospettiva de jure condendo come alla sola idonea a garantire una validità permanente alla ricerca, sottraendola al pericolo di vederne i risultati travolti…dalle tre parole del legislatore che bastano per mandare al macero intere biblioteche». Per Giugni era arrivato il momento del “rovesciamento della prassi”, di tener conto, cioè, delle esperienze concrete dell’autonomia collettiva dei gruppi professionali che «consolidatesi in quindici anni di libera contrattazione, sono venute costituendo un dato permanente ed irreversibile, del quale non potrà non tener conto lo stesso legislatore, qualora voglia o possa intervenire».
A sostegno di queste considerazioni, Gino Giugni citava il caso degli accordi interconfederali, un modello di contrattazione non previsto dall’articolo 39, divenuto tuttavia – in quegli anni – molto importante; e ricordava che dieci anni prima (a ridosso dell’entrata in vigore della Costituzione) la dottrina si interrogava sull’opportunità di un riconoscimento legislativo delle associazioni confederali e della loro attività contrattuale, mentre sulla base dell’esperienza effettuale sarebbe apparso aberrante «una soluzione legislativa che intervenisse massicciamente nella sfera dell’autonomia organizzativa e contrattuale, deformando le linee di sviluppo che questa si è liberamente scelta e che ha, di proposito, consolidato». E di lì prendeva le mosse un’evocazione del “diritto vivente”, un patrimonio al quale un giurista doveva accostarsi con lo stesso rispetto e con la stessa passione da cui erano animati al principio del XX secolo, i coniugi Webbs in Gran Bretagna, i Commons negli Usa, Leroy in Francia, Sinzheimer in Germania, Messina in Italia «quando intrapresero la scoperta del nuovo diritto spontaneo dei gruppi collettivi». Anche se in Italia non c’erano più i grandi giuristi di un tempo «ciò non toglie – scriveva ancora Giugni – che sia necessario volgere l’attenzione alla complessa fenomenologia emersa da quindici anni di attività contrattuale; un’attività che si è svolta nel precario contesto della legge comune dei contratti, è risultata viziata da mille insufficienze, dovute alle infelici vicende del nostro movimento operaio, ma è nondimeno costitutiva di un valido patrimonio di esperienze di diritto vivente».
Secondo Giugni, «la nozione dell’ordinamento contrattuale intersindacale come sistema che, date certe condizioni», avrebbe potuto assumere la fisionomia di “ordinamento particolare”, poteva iscriversi nelle teorie pluralistiche intese come strumenti metodologici per meglio intendere dei fenomeni di dinamica organizzativa del corpo sociale; o molto più semplicisticamente “nell’insuperabile contraddizione tra dommatica e storia”, nella continua tensione tra le categorie del diritto statuale e il “diritto vivente” dei gruppi. Così il diritto sindacale si liberava dell’angoscia della mancata applicazione della norma costituzionale e si convinceva del fatto che la sua condizione non era frutto di un’esperienza anomala ed incompiuta, ma aveva i requisiti di un vero e proprio ordinamento giuridico. «Fin dai primordi – notava ancora Gino Giugni – emergono alcuni elementi di originarietà normativa, articolati su una semplicissima struttura base o “norma fondamentale”: accordo tra le parti (o addirittura accordo tra l’impresa e la collettività delle maestranze) per abbandonare lo schema individualistico dei rapporti, e per sostituirvi, in funzione permanente, il regolamento collettivo. Qui – continuava – si registrano i primi elementi di una legittimazione della futura produzione giuridica: il “riconoscimento’’ tra le parti della reciproca funzione rappresentativa e, soprattutto, l’attribuzione al comune accordo del carattere di una fonte permanente per il regolamento collettivo. Qui compare, per la prima volta, un bisogno di continuità e di certezza dei rapporti, sconosciuto alla normale vicenda del contratto, che nasce e muore nello spazio di un mattino, lega volontà ed interessi individuali, non è, per lo meno nelle sue forme codificate, strumento di permanente organizzazione del potere sociale». Così, dall’inizio degli anni ’60, insieme all’avvio della riscossa operaia, anche il diritto sindacale era diventato adulto e dotato di una propria identità. Un’identità che ne ha fatto un’esperienza originale e matura. Fino a quando, con settant’anni di ritardo Cgil, Cisl e Uil chiedono, nel loro documento sulle relazioni industriali, l’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione allo scopo di “dribblare” l’insidia del salario minimo legale. «L’esigibilità universale dei minimi salariali definiti dai Ccnl, in alternativa all’ipotesi del salario minimo legale, va sancita attraverso un intervento legislativo di sostegno, che definisca l’erga omnes dei Ccnl, dando attuazione a quanto previsto dall’Art. 39 della Costituzione». Per fortuna, si tratta di una proposta a cui nessuno farà caso e che confermerà l’irrilevanza delle organizzazioni sindacali, che hanno perduto un’altra occasione importante. Altrimenti – come hanno scritto su Il Foglio Emmanuele Massagli e Francesco Seghezzi – «se il Governo asseconderà la richiesta della “triplice’’ (forse non aspettava altro) improvvisamente il sindacato italiano perderà uno dei suoi connotati più originali, aprendo una nuova fase della sua storia».
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus