Nel decreto legislativo n. 23 del 2015 riguardante il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ovvero la nuova disciplina del licenziamento per gli operai, gli impiegati e i quadri assunti dopo l’entrata in vigore del provvedimento (dal 7 marzo dell’anno corrente), è palese l’indirizzo rivolto a scoraggiare i lavoratori (a cui si applica il nuovo regime) a ricorrere in giudizio. A questi soggetti, infatti, l’articolo 11 nega l’applicazione dei commi da 48 a 68 dell’articolo 1 della legge n. 92 del 2012, dove era previsto un iter processuale più veloce – almeno nelle intenzioni – nelle controversie sui licenziamenti.
Può sembrare un paradosso ma il rito processuale made by Fornero rimane in vigore per i “vecchi” assunti, mentre per i “nuovi” si ritorna a quanto sancito dalla legge n. 533 del 1973 (il processo del lavoro). E forse, nei propositi del legislatore, attraverso questa scelta, si vuole promuovere la soluzione stragiudiziale dell’eventuale controversia. Un altro aspetto meritevole di considerazione è quello indicato dal comma 3 dell’articolo 3: «Al licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 1 (operai, impiegati e quadri nuovi assunti, ndr) non trova applicazione l’articolo 7 della legge 15 luglio 1966 n. 604, e successive modificazioni».
Come è ampiamente noto si tratta della novella introdotta dalla legge Fornero che stabiliva un tentativo obbligatorio e preliminare di conciliazione nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Per regolare la fattispecie (tuttora in vigore per i “vecchi’’ assunti) viene prevista un’articolata procedura, con tanti di adempimenti e scadenze (riecheggiante, mutatis mutandis, quella vigente per i licenziamenti collettivi) che ha inizio con la comunicazione del datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro (DTL) riguardante «l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo» e contenente l’indicazione dei motivi dell’atto «nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato».
La DTL è tenuta ad attivarsi, entro limiti temporali definiti, per promuovere l’incontro e dare corso alla procedura conciliativa, che, se ha esito positivo e conduce ad una risoluzione consensuale, determina l’applicazione dell’ASpI e il possibile affidamento del lavoratore licenziato ad un’agenzia del lavoro ai fini di una ricollocazione. Se fallisce il tentativo di conciliazione o decorrono inutilmente i termini previsti il datore può comunque procedere al licenziamento. Nel d.lgs. n. 23/2015 l’articolo 6 disciplina un’offerta di conciliazione ad iniziativa esclusiva del datore da effettuare entro i termini dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento. L’offerta non consiste in una conciliazione classica, con possibilità di negoziato, essendo precostituita nel suo ammontare, per cui il lavoratore può solo prendere o lasciare.
Il datore, quindi, ha buone possibilità di evitare il processo erogando, insieme alle altre competenze e in una “sede protetta’’ (ai sensi del comma 4 dell’articolo 2113 c.c. e dell’articolo 76 del d.lgs. n. 276 del 2003), al lavoratore licenziato (che può restituire la somma) un ammontare, tramite assegno circolare, al netto da gravami fiscali e contributivi, in misura sostanzialmente assimilabile a quanto il lavoratore potrebbe percepire attivando il processo (una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio da un minimo di due ad un massimo di 18).
L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore «comporta l’estinzione del rapporto e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia proposta». Il fatto è che, diversamente dall’articolo 7 novellato di cui alla legge n. 92 del 2012, l’offerta di conciliazione non è sostenuta da una procedura organizzata nei tempi e nelle modalità.
Come può il datore di lavoro attivare l’incontro nella “sede protetta’’? È vero, sono sempre a disposizione le norme di cui agli articoli 410 e 411 c.p.c., ma sono sufficienti a consentire al datore di lavoro di portare la propria controparte nelle sede propria in cui possa ricevere l’assegno, accettarlo o rifiutarlo? Non sarebbe stato più corretto prevedere una procedura specifica, piuttosto che lasciare al caso e all’attivismo delle parti la possibilità di dare corso all’offerta di conciliazione? Chi scrive è convinto che un’attenta lettura dei nuovi testi, messi a confronto con quelli precedenti (ciò sarà vero soprattutto quando sarà varato il decreto sulle forme contrattuali) farà scoprire parecchie “zone d’ombra’’ ed evidenzierà piccole modifiche normative non prive di implicazioni. Altrimenti non si spiegherebbe una tecnica legislativa all’apparenza ripetitiva di norme in vigore.
Torniamo, però, al decreto n. 23: tutte le volte in cui si parla delle misura della sanzione risarcitoria essa viene commisurata «all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto»; ciò, diversamente da quanto previsto dall’articolo 18 della legge n. 300/1970 dove si parla di «retribuzione globale di fatto» (nella legge Fornero, vigente per i “vecchi’’ assunti, si parla di «ultima retribuzione globale di fatto»).
La diversa indicazione ha sicuramente delle conseguenze concrete. La legge del 1982 ha indicato la base retributiva annua a cui fare riferimento per il calcolo del trattamento includendovi tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese. Ma, come è noto, la contrattazione collettiva, sempre ai sensi della legge n. 297/1982, può stabilire una diversa previsione ovvero determinare in maniera differente la suddetta base retributiva.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus