Mi è capitato di commentare con un amico giornalista la questione più seria (anche se non adeguatamente considerata) nella vicenda della proposta dell’Inps per la (contro)riforma del sistema di welfare (è opportuno usare questa definizione di carattere generale essendo la grande maggioranza dei 16 articoli del progetto dedicati ad un riordino dell’assistenza): come può essere consentito al Presidente del più importante ente previdenziale d’Europa di strumentalizzare (perché di questo si tratta) il proprio ruolo istituzionale allo scopo di far circolare le proprie idee con l’avallo della “gioiosa macchina da guerra” di cui è solo al comando (vista la più volte dimostrata inconsistenza del Consiglio di indirizzo e vigilanza, di cui sono componenti i rappresentati di quelle forze sociali che oggi non incutono più timore reverenziale a nessuno).
L’amico giornalista, di solito ben informato, mi fornisce la sua versione: quando era in corso la formazione del Governo, Matteo Renzi avrebbe offerto a Boeri la titolarità del Ministero del lavoro, non essendo poi in grado di mantenere l’impegno preso. Così, a fronte delle rimostranze di Boeri, il premier lo aveva proposto al Consiglio dei Ministri come presidente dell’Inps, dopo aver rimosso – con uno stile molto discutibile e assai poco corretto – una personalità di grande professionalità, esperienza e prestigio come Tiziano Treu. Su sua richiesta – è sempre l’amico giornalista che parla – Matteo Renzi aveva riconosciuto a Boeri la facoltà di avanzare tutte quelle proposte che avrebbe ritenuto opportune, come se fosse una sorta di Ministro-ombra della previdenza. Non sono in grado di giudicare se la storia che mi è stata raccontata sia corrispondente al vero. È, tuttavia, certamente verosimile; e questo, con i tempi che corrono, è già abbastanza per poterne scrivere.
Inoltre, in tal guisa, si spiegherebbero tanti aspetti altrimenti incomprensibili: dal ricorrente (e tollerato) protagonismo di Boeri fino al comunicato con cui la presidenza del Consiglio ha commentato (e praticamente coperto) lo sgarbo istituzionale riguardante la pubblicazione della proposta (mentre tutti hanno notato le reazioni piccate del ministro Giuliano Poletti).
Ciò premesso, è sufficiente – ammesso e non concesso che di questo si tratti – la parola del Premier per poter violare impunemente regole istituzionali consolidate? Così, al mio amico giornalista ho fatto notare che se il premier avesse promesso al Comandante dell’Arma dei Carabinieri (per convincerlo ad accettare l’incarico) che gli sarebbe stato consentito di proclamare lo stato d’assedio quando lo avesse ritenuto opportuno, quello stesso non potrebbe lamentarsi il giorno in cui la parola del Premier non fosse stata mantenuta. Che cosa si potrebbe pensare, del resto, se il Governatore di Bankitalia presentasse sul sito dell’Istituto un articolato riguardante il rientro dal debito? O se Rossella Orlandi, dalla “stanza dei bottoni” dell’Agenzia delle entrate, insistesse nel criticare le scelte di politica fiscale del Governo? Se ne valesse la pena, si potrebbero fare tanti altri esempi di azioni “politicamente scorrette”: ma sappiamo di vivere nel “tempo degli Unni”, in cui non solo non valgono più le vecchie regole, ma non ve ne sono neppure di nuove. In quale altro modo, per esempio, si potrebbe commentare uno dei punti clou del progetto Boeri, riguardante il taglio strutturale, permanente e definitivo di prestazioni sociali erogate sulla base della legislazione vigente e, secondo una giurisprudenza consolidata della Consulta, fino ad ora considerate diritti acquisiti?
Anche sulle proposte concernenti la c.d. transizione flessibile ci sarebbe parecchio da ridire. In fondo, l’idea di Boeri – il quale non si astiene da una critica ingenerosa e sbagliata alla Riforma Fornero – non fa che ricalcare una soluzione già prevista nell’articolo 24 del decreto legge n. 201/2011, “rinverdendo” un’opzione (peraltro tuttora vigente) prevista nella legge Dini-Treu del 1995. È consentito, infatti, optare per il calcolo della pensione interamente con il metodo contributivo a condizione di far valere almeno 15 anni di contributi, 5 dei quali versati secondo tale metodo. Optando per il calcolo contributivo è possibile – sulla base della riforma Fornero – servirsi dell’uscita di sicurezza prevista al raggiungimento di 63 anni di età a patto che l’importo a calcolo sia pari o superiore a 2,8 volte quello dell’assegno sociale (1.200 euro mensili lordi nel 2012). Ciò in quanto il sistema non deve garantire solo la sostenibilità, ma anche l’adeguatezza dei trattamenti. Esiste un ulteriore requisito per poter esercitare tale facoltà: aver maturato meno di 18 anni di versamenti prima del 31 dicembre 1995. In pratica, dunque, la proposta dell’Inps supera questi requisiti accessori ed estende l’opzione anche a coloro che si trovano nel sistema misto (in più strizzando l’occhio, per quanto riguarda il modesto disincentivo, alle proposte di legge attualmente in discussione alla Camera, e in particolare a quella a prima firma di Cesare Damiano e Pier Paolo Baretta).
In generale, l’elaborato di Boeri finisce per essere datato. Le proposte sulla prestazione assistenziale, ad esempio, vanno in una direzione diversa da quelle prefigurate nel Jobs Act, il quale punta sull’Asdi e sulle politiche attive (in quest’ultimo aspetto con molta più convinzione di quella che trapela nel testo dell’Inps). Ed è veramente singolare quanto è scritto nel documento: «Il blocco delle uscite verso il pensionamento impone costi anche sotto forma di ritardi nei processi di ristrutturazione delle imprese e di mancata rotazione della manodopera nel pubblico impiego.
Al di là di questo problema legato alla particolare intensità e durata della Grande Recessione e della successiva crisi del debito pubblico dell’area euro, una maggiore flessibilità in uscita, se sostenibile, aumenterebbe grandemente il benessere delle famiglie che hanno, specie in quella fascia di età che precede il ritiro dalla vita attiva, esigenze ed aspirazioni molto diverse tra di loro. Il tutto alleggerendo la gestione del personale di imprese che altrimenti si troverebbero a dover dare lavoro a persone poco motivate, presumibilmente, poco produttive».
È proprio così; quasi da non credere a quanto si legge: un intellettuale di rango e di prestigio, profondo conoscitore della materia come Tito Boeri, non trova, come risposta alla crisi, una ricetta migliore di una massiccia operazione di prepensionamento. A suo avviso, alleggerire gli organici dei lavoratori più anziani (“persone poco motivate”) favorirebbe i processi di ristrutturazione.
Ma il limite vero del progetto è un altro: nonostante la pretesa di chiudere in via definitiva l’iter ultraventennale delle riforme previdenziali (“una serie di aggiustamenti ben calibrati possono permetterci di non dover più intervenire in futuro, dando finalmente stabilità normativa, sicurezze ai contribuenti e ai pensionati”) la proposta dell’Inps non è il Jobs Act delle pensioni. Odora, invece, tremendamente di vecchio, come anziani sono i soggetti di riferimento delle nuove regole made by Boeri: lavoratori il cui progetto di vita è già orientato alla quiescenza. È venuto il momento, ad avviso di chi scrive, di mettere radicalmente in discussione le analisi che ci trasciniamo appresso dal 1995 (dalla riforma Dini) ad oggi.
Si è sempre detto che l’introduzione del sistema contributivo avrebbe risolto i problemi della sostenibilità del sistema, mentre la criticità di quella legge (e delle modifiche successive) consisteva nell’eccessiva gradualità della fase di transizione, organizzata e predisposta allo scopo di tutelare le generazioni contemporanee mandando il conto da pagare a quelle future. Per ripristinare l’equità, allora, occorreva perseguire un percorso che accelerasse la fase di transizione e “correggesse i privilegi” dei padri. È questa la filosofia del progetto di Tito Boeri e della sua insistenza quasi maniacale per il ricalcolo dei trattamenti in essere con il metodo contributivo. In sostanza, si sta verificando, nell’ambito del sistema pensionistico, una sorta di rito vendicativo nei confronti dei “privilegiati” del passato quale contrappasso nei confronti dell’amaro destino previdenziale dei figli. Ma l’impianto rimane seduto a “rammendare le solite vecchia calze” dei lavoratori anziani. Si toglie ai “vecchi”, per dare ai “vecchi”: dai più benestanti ai più poveri di loro, pur appartenendo essi al medesimo regime pensionistico retributivo (bandito come “privilegiato”).
Non si guarda ai meriti, ma solo ai bisogni. Basti pensare, infatti, che i risparmi ottenuti dai tagli sulle “pensioni d’oro” sarebbero usati a copertura di qualche aggiustamento a favore non dei giovani, ma dei pensionandi dei prossimi anni. Dopo che ai c.d. esodati sono garantite ben sette sanatorie per un onere, a regime, intorno ai 12 miliardi. E i giovani? A loro si dà il contentino del “mal comune mezzo gaudio” tagliando la pensione dei “padri” egoisti e ingenerosi, sottoponendo anch’essi all’autodafé del calcolo contributivo. Occorrerebbe, invece, trovare il coraggio di dire la verità. Il modello prefigurato dalla riforma Dini e dagli aggiustamenti successivi è rimasto con la testa rivolta all’indietro, nel senso che ha continuato a collocare i lavoratori di oggi e di domani nel mercato del lavoro di ieri, senza porsi l’obiettivo di come garantire ai giovani – a fronte delle condizioni del mercato del lavoro dell’economia globalizzata e competitiva – un trattamento non solo sostenibile, ma anche adeguato.
A pensarci bene, mutatis mutandis, sarebbe necessario compiere un’operazione analoga a quella che fu fatta alla fine degli anni ’60 con la legge delega n. 153/1969, quando da un rozzo sistema contributivo (le c.d. marchette) si passò a quello retributivo che si dava come obiettivo quello di assicurare, alla fine della vita attiva, una pensione equipollente al reddito acquisito nell’ultima fase di essa. La finalità era quella di garantire una vecchiaia dignitosa a quanti avevano avuto una storia lavorativa e contributiva piuttosto accidentata nell’immediato dopoguerra. O addirittura avevano visto sfumare i loro versamenti, relativi ad attività lavorative antecedenti il conflitto, per via dell’inflazione postbellica. Le modalità con cui questo esito venne perseguito (una retribuzione pensionabile limitata ad un arco temporale troppo breve) sono, in parte, alla base della insostenibilità del sistema prima delle riforme. Ma almeno il modello era in grado di garantire una tutela pensionistica adeguata per quei soggetti sociali che erano centrali nel mercato del lavoro di allora.
L’incerta prospettiva pensionistica dei giovani di oggi non deriva dalle regole dell’accreditamento dei contributi e dal meccanismo di calcolo della prestazione, ma dalla loro condizione occupazionale precaria e saltuaria durante la vita lavorativa. Una carriera contraddistinta da un accesso tardivo all’impiego, da rapporti interrotti e discontinui (senza potersi giovare, inoltre, di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali che cucia tra di loro i differenti periodi lavorativi, magari contraddistinti da rapporti regolati da regimi differenti) finirà per influire negativamente anche su di una pensione, il cui regime venne pensato per un lavoratore della società industriale.
Il fatto è che le nuove caratteristiche del lavoro non sono un incidente della storia, ma il frutto di una trasformazione permanente, resa necessaria dai processi dell’economia globale e competitiva. Da noi, invece, si continua a ballare intorno al totem del contratto a tempo indeterminato come forma comune di lavoro, come se bastasse sconfiggere, durante la vita attiva, quelle che chiamano condizioni di precarietà per salvare così anche la pensione. Quando occorrerebbe invertire il paradigma. Ecco, dunque, l’esigenza di ripensare un sistema obbligatorio coerente con il lavoro di oggi e di domani. Magari da applicare solo ai nuovi assunti, come il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. È questa la prospettiva a cui dovrebbe lavorare l’Inps.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus