Bollettino ADAPT 22 giugno 2020, n. 25
Alla kermesse degli Stati generali dell’economia, le parti sociali hanno svolto degli interventi d’impostazione diversa. Mentre i sindacati hanno prevalentemente insistito per rafforzare le tutele congiunturali del lavoro (la Cig e il blocco dei licenziamenti) rimanendo molto sulle generali per quanto riguarda le riforme, il neo presidente della Confindustria Carlo Bonomi – al suo esordio e dopo uno scambio di battute molto puntiglioso sa remoto tra lui e il presidente Giuseppe Conte – ha cercato di indirizzare il dibattito verso la c.d. fase 3: “E’ mancata finora – ha affermato in conferenza stampa – una qualunque visione sulla Fase 3, da far seguire a chiusure e riaperture. La fase cioè in cui definire sostegni immediati alla ripresa di investimenti per il futuro, riprendendo e potenziando in toto l’impianto d’Industria 4.0” e “affiancandovi un grande piano Fintech 4.0″. Queste considerazioni sono state accompagnate dalla presentazione di “Italia 2030. Proposte per lo sviluppo”: una raccolta di saggi di economisti con una prefazione a firma dello stesso Bonomi. Detto per inciso, sembra un po’ insolito interloquire con un governo facendo omaggio al premier di un libro che si trova nelle librerie e che contiene delle proposte di persone che non appartengono alla Confindustria. Si vede che è il tempo delle task forces.
Tornando in tema “Se si vuole cambiare l’andazzo – ha precisato Bonomi – allora bisogna cambiare anche il metodo di lavoro. Bisogna tornare alla concertazione governo-parti sociali come ai tempi di ciampiana memoria (ovvero del governo Ciampi del 1993, ndr) affinchè le decisioni siano prese solo dopo aver consultato chi quelle decisioni poi deve attuarle’’. Poi rapito dalla voglia di fare, sempre nella prefazione, Bonomi ha lanciato l’idea di “una grande alleanza pubblico-privato (in altre occasioni il presidente ha parlato di “democrazia negoziale’’, ndr)….. con cui il decisore politico dialoga incessantemente attraverso le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del terzo settore, della ricerca e della cultura”.
A questo punto, Bonomi temendo, forse, di essere male interpretato e accusato di coltivare un progetto neo-corporativo, ha voluto rassicurare i propri interlocutori: “Nessuna volontà di chiedere una ‘terza camera’ ma solo la certezza di essere ascoltati. E questo – ha lamentato Bonomi – durante la gestazione dei primi due decreti per dare ossigeno all’economia non sempre è avvenuto”.
Ben tornata concertazione, dunque? In fondo la richiesta di Bonomi non è diversa da quella dei sindacati che hanno sempre sollecitato il governo a ricostruire un rapporto vero con le parti sociali“. Quando si affronta il tema della concertazione si finisce sempre per evocare il Protocollo del luglio del 1993, sottoscritto tra governo Ciampi (con Gino Giugni al Lavoro) e Cgil, Cisl e Uil, come se fosse un caso di scuola, un modello di relazioni che, in seguito, non ha mai annoverato esperienze di tale livello. Solo qualche studioso di relazioni tra governi e sindacati (o qualche anziano allora presente) ricorda il c.d. Protocollo di Natale che, nel 1998, il governo D’Alema stipulò con le parti sociali e gli volle dare tanta importanza da sottoporlo ad un voto del Parlamento. In seguito si svolsero diversi negoziati che portarono ad accordi interconfederali (non sottoscritti dalla Cgil) che rivedevano (siamo nel 2009) la struttura della contrattazione ed introducevano, con l’Ipca, una nuovo meccanismo di calcolo del costo della vita, escludendo la c.d. inflazione importata (il prezzo del petrolio). Sempre all’iniziativa delle parti si devono i vari accordi sui problemi della rappresentanza, riassunti persino in un Testo Unico. Si potrebbe, poi, compilare un lungo elenco degli incontri (disintermediazione stile Matteo Renzi permettendo) tra l’esecutivo e i sindacati (negli ultimi tempi è capitato che la Confindustria non fosse nemmeno invitata, come quando le confederazioni hanno negoziato con l’esecutivo il pacchetto Ape e dintorni).
Ma perché, allora, quando si parla di concertazione si ritorna sempre al Protocollo del 1993 (che peraltro venne sottoposto ad un riesame, nel 1997, da parte di una commissione presieduta da Gino Giugni e composta dai più noti giuslavoristi tra cui i compianti Massimo D’Antona e Marco Biagi)? Può essere riesumata dell’esperienza di “ciampiana memoria” come ha chiesto Bonomi? Ovviamente, immaginiamo, tenendo conto dei tanti aspetti che sono cambiati dal 1993 ad oggi.
Il Protocollo del 1993 (che non sarebbe mai stato possibile senza la fase destruens praticata l’anno prima dal governo Amato insieme alle confederazioni) coronò un’epoca in cui i sindacati svolsero un ruolo di supplenza della politica, essendo i partiti che avevano governato l’Italia dal dopoguerra sotto il tiro delle inchieste giudiziarie. Non è un caso che dopo la caduta dell’esecutivo presieduto da Giuliano Amato, l’incarico di formare il governo venne dato a Carlo Azeglio Ciampi, allora Governatore della Banca d’Italia. L’esecutivo aveva un discreto profilo tecnico e per la prima volta includeva ministri di area ex Pci (che ben presto furono indotti a dimettersi dal segretario Achille Occhetto – grandissimo errore, alla stregua dei cavoli a merenda – come rappresaglia per il voto con cui la Camera aveva negato l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi). Oggi, il quadro politico è ancor più sgangherato, ma anche i sindacati e associazioni datoriali sono in buona salute ed hanno dei gruppi dirigenti sufficientemente illuminati (le dimissioni di Marco Bentivogli privano il movimento sindacale di un punto di riferimento molto importante per la visione del futuro).
Ma la ragione vera del risultato politico realizzato nel 1993 è un’altra: l’ossatura di quel Patto stava nella definizione di una struttura della contrattazione che prendeva atto della fine della “scala mobile” (quasi 10 anni dopo del decreto di San Valentino) e attribuiva un preciso ruolo – nel rispetto del principio del ne bis in idem – a ciascun livello di contrattazione. E soprattutto impostava, attraverso la riforma della contrattazione, una politica salariale compatibile con il rientro dall’inflazione in vista degli allora prossimi appuntamenti comunitari. Questo era il ‘’nucleo duro’’ che conteneva anche un preciso approdo politico in direzione di una maggiore integrazione europea. Poi intorno c’erano promesse e giaculatorie che facevano da cornice ed indoravano la pillola.
Il Patto di Natale era invece un elenco di impegni (appunto, promesse e giaculatorie) che il governo prendeva con la parti sociali, le quali, però, non avevano messo nulla in cambio (se non una firma a sostegno politico del governo che era subentrato sbrigativamente al primo esecutivo presieduto da Romano Prodi). Il tentativo di riformare l’assetto della contrattazione collettiva (anche sulla base delle indicazioni della commissione Giugni) era stato stoppato dalla Cgil.
La domanda da fare oggi a sindacati e a Confindustria viene da sé: che cosa avete, di vostra competenza, da mettere sul tavolo del negoziato? La linea di condotta – se si vuole agire nell’interesse del Paese – è tracciata niente meno che dal Governatore Ignazio Visco nelle sue Considerazioni finali: “Per riportare la dinamica del prodotto intorno all’1,5 per cento (il valore medio annuo registrato nei dieci anni precedenti la crisi finanziaria globale) servirà un incremento medio della produttività del lavoro di poco meno di un punto percentuale all’anno. Questo obiettivo – ha proseguito Visco – richiede un forte aumento dell’accumulazione di capitale, fisico e immateriale, e una crescita dell’efficienza produttiva non dissimile da quella osservata negli altri principali paesi europei. Conseguirlo presuppone comunque una rottura rispetto all’esperienza storica più recente, richiede che vengano sciolti quei nodi strutturali che per troppo tempo non siamo stati capaci di allentare e che hanno assunto un peso crescente nel nuovo contesto tecnologico e di integrazione internazionale’’.
C’è dunque materiale, per le parti sociali, da affrontare non solo sul piano della contrattazione di prossimità ora negletta (orari, organizzazione del lavoro, formazione, ecc.), ma anche su quello degli investimenti. Comincino le parti sociali ad assumere iniziative e a realizzare obiettivi specifici su questo terreno. E non pensino che basti mettersi d’accordo su quanto chiedere al governo. Come il Protocollo del 1993 fu decisivo per combattere l’inflazione, quello del 2020, se ci sarà, dovrebbe servire a migliorare la qualità del lavoro e della produzione, a gestire i processi di esubero e di ricollocazione, attraverso un grande sforzo di riconversione professionale, dei lavoratori nei settori che non solo hanno resistito, ma che hanno aumentato i fatturati durante l’epidemia. Se questa sarà la pietra d’angolo, le parti sociali conquisteranno il diritto di pretendere dal governo e dal Parlamento le riforme necessarie.
Membro del Comitato scientifico ADAPT