Mi dicono che il filone storico, avviato da qualche settimana nella rubrica, incontra un discreto interesse. Così, se nel numero precedente, con riguardo ai sindacati dei metalmeccanici, mi sono a lungo soffermato sul sole di Austerlitz che riscaldò l’autunno caldo del 1969, questa volta – attraverso un ampio ‘’volo pindarico’’ – ricorderò il tramonto di Waterloo ovvero la sconfitta alla Fiat nell’autunno del 1980.
Nella precedente rubrica ho richiamato i preliminari di quel rinnovo contrattuale che nel 1969 videro l’intera categoria imporre al gruppo di Torino il ritiro delle sospensioni annunciate, come pregiudiziale per dare avvio alle trattative. L’avv. Gianni Agnelli dovette cedere (ho rammentato le immagini televisive in bianco e nero che lo ripresero, quasi incredulo, all’uscita dal Ministero del Lavoro). Nel 1980 (il 15 ottobre per l’esattezza) toccò ai sindacati sorbire fino in fondo l’amaro calice della sconfitta. Il giorno prima si era svolta, per le vie di Torino, la famosa ‘’Marcia dei 40mila’’ di cui ancora si parla come di un momento di svolta, di passaggio da un’epoca ad un’altra nel breve volger di una giornata. Il 1980 fu un anno orribile, quello dell’attentato dinamitardo del 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna, che uccise tante persone. Nel autunno, quel sindacato sopravvissuto ai ruggenti anni ‘70 – come quel cavaliere che continuava a combattere senza accorgersi di essere già morto – dovette misurarsi con la Fiat in una sfida di cui esso non comprese che, in quella circostanza, non era in gioco solo un atto di rappresaglia sindacale, ma la decisione del management di scrollarsi di dosso una condizione produttiva e di relazioni sindacali ormai divenuta ingovernabile ed insostenibile, tanto da condannare – senza cambiamenti sostanziali – ad un declino inesorabile l’azienda torinese che si trovava a dover fronteggiare una situazione di mercato decisamente critica e priva di prospettive a breve.
Aveva inizio la grande ristrutturazione produttiva del decennio ottanta. Dapprima furono richieste migliaia di licenziamenti. Poi, dopo la caduta del Governo Cossiga, la Fiat colse l’occasione per aggiustare il tiro tramutando la richiesta di licenziamenti in 23mila sospensioni. I sindacati che erano scivolati, per sostanziale debolezza, in uno sciopero ad oltranza, coi picchetti davanti ai cancelli, non furono in grado di convincere i lavoratori a cambiare forma di lotta, rientrando al lavoro e adottando iniziative di sciopero di più lungo respiro.
Così l’azione andò avanti per 35 giorni in modo continuativo. Fino a quando, il 14 ottobre, si svolse a Torino una grande ed inaspettata manifestazione a cui presero parte 40 mila lavoratori tra capi, tecnici ed impiegati, in difesa del diritto al lavoro. L’evento suscitò un’enorme impressione e indusse i vertici sindacali (fino a quel momento fortemente impegnati nella battaglia) a pervenire, il giorno successivo, ad un accordo che venne vissuto come una sconfitta dalle “avanguardie” (le sole ormai che scioperavano e facevano i picchetti, per non consentire l’accesso al lavoro della grande maggioranza dei lavoratori), tanto che al momento di riferire, nelle assemblee, i termini dell’intesa, i segretari confederali (che in pratica avevano espropriato, per fortuna, il gruppo dirigente della Flm) vennero rincorsi da alcuni gruppi di lavoratori e dovettero scappare nel vero senso della parola. Cesare Romiti, allora amministratore delegato del gruppo torinese ricordò, alcuni anni dopo, la conclusione della vertenza con le seguenti parole: “ La svolta del 1980 fu determinante non solo per la Fiat ma per tutto il paese. Non credo di peccare di presunzione se affermo che parole come profitto, produttività, merito hanno riacquistato il diritto di esistere in Italia grazie soprattutto a noi, alla nostra fermezza”. Allora dirigeva la Cgil del Piemonte Fausto Bertinotti e Claudio Sabbatini (il capostipite della cordata che ha portato la Fiom in un vicolo cieco e l’unico che, nel 1980, pagò per la sconfitta con un’emarginazione di anni e costata duramente anche sul piano personale) era il segretario della Fiom che seguiva il settore dell’auto.
Come il bambino della favola, i “quarantamila” di quel 14 ottobre 1980 avevano svelato la nudità del sovrano-sindacato. I dirigenti più responsabili colsero quella traumatica occasione per compiere quanto non erano stati in grado di fare prima: concludere, alle condizioni possibili, una vertenza ormai insostenibile. Viene da chiedersi – col senno di poi – perché, nel sindacato, si fosse avviata una riflessione autocritica soltanto dopo la sconfitta, mentre prima – in nome di una falsa unità di classe – l’intero movimento confederale si fosse schierato a favore di una lotta persa in partenza, perché viziata dalla negazione (o meglio, dal rifiuto) della crisi del settore e del gruppo, da assumere come dato oggettivo, rispetto al quale anche l’azienda non aveva spazi di manovra, salvo condannarsi al suicidio assistito.
Invece, le analisi compiute dal sindacato erano tutte incentrate sull’esigenza di sconfiggere un disegno diabolico, teso a recuperare potere in fabbrica. Le maestranze della Fiat furono le prime vittime di una direzione sindacale in parte inadeguata e in parte pregiudizialmente intenzionata ad inasprire la vertenza e la lotta. Nel suo insieme, il sindacato si rifiutò di ammettere, infatti, l’oggettività della crisi produttiva, dovuta al mutamento dei mercati e alla necessità di ampi processi di ristrutturazione. Tutta l’operazione (la richiesta di 15mila licenziamenti prima, di 23mila lavoratori in cassa integrazione, poi) veniva denunciata come se fosse un progetto strumentale dell’azienda.
L’insuccesso alla Fiat, così, fu benefico. E trasformò radicalmente l’approccio culturale verso i problemi del sistema delle imprese. Nel decennio Ottanta l’apparato produttivo passò attraverso un tritacarne: interi settori, che erano stati l’ossatura dell’apparato industriale (la siderurgia, la petrolchimica, la navalmeccanica e in genere le industrie a partecipazione state) subirono trasformazioni assai profonde e sopportarono conseguenze pesanti sull’occupazione e sulle condizioni di lavoro. Il sindacato, tuttavia, assunse quasi sempre, dopo quel tragico autunno torinese, posizioni negoziali e di collaborazione, finalizzate a salvare le unità produttive anche a costo di amministrare costi sociali enormi. Così avvenne nella vicenda del piano chimico.
Certo i gruppi dirigenti di quella categoria erano meglio orientati di quelli dei metalmeccanici. Ma non c’è alcun dubbio: la sconfitta servì. Purtroppo, come avvenuto altre volte, prima e dopo quell’evento, i sindacati italiani imparano soltanto attraverso le sconfitte.
Membro del Comitato scientifico di ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus