Bollettino ADAPT 4 settembre 2023, n. 29
Mondialpol, tra le maggiori società nei servizi di vigilanza privata, alza gli stipendi e la Procura di Milano revoca il provvedimento di controllo giudiziario a cui era stato posta per caporalato e sfruttamento dei lavoratori la società Mondialpol.
La società, in una nota, spiega di aver deciso di innalzare i salari degli addetti ai servizi di sicurezza non armata del 20% dal primo settembre 2023: «È stato definito un percorso progressivo che porterà a un aumento del 38% alla scadenza del Ccnl prevista per il primo aprile 2026».
Da queste poche righe tratte da Il Sole 24 ore emerge quanto sta accadendo in materia di relazioni industriali sotto i nostri occhi non ancora abbastanza disincantati per non restare a bocca aperta e ripassare velocemente quanto abbiamo studiato durante tutta una vita, per trovare dove abbiamo sbagliato.
La procura di Milano ha scoperto un nuovo filone nel campo del diritto penale e ha indagato Mondialpol, la maggiore società di vigilanza privata per caporalato e sfruttamento dei lavoratori, sottoponendola al controllo giudiziario. La sociètà, da conto suo, è corsa ai ripari decidendo un sostanzioso aumento scaglionato per il personale che presta servizio senza l’uso delle armi, ovvero coloro che svolgono il ruolo di uscieri e di portinai, nelle istituzioni pubbliche e private. Preso atto del “ravvedimento operoso” la procura ha revocato il controllo giudiziario.
Dopo il caso della società Mondialpol (il medesimo trattamento è stato usato anche per Sicuritalia) la solerte procura meneghina ha preso di mira un’altra azienda del settore, la Cosmopol, seguendo la procedura già svolta in precedenza: la nomina di un commissario giudiziale mentre sono in corso le indagini per il reato di caporalato e di sfruttamento dei lavoratori. La Cosmopol è una società campana che ha quali 4mila dipendenti e un fatturato di 132 milioni di euro ed un utile di 6,5 milioni. Anche il suo personale è impiegato con funzioni di vigilanza in molte aziende pubbliche e private di primaria importanza come le Poste, Enel, Leonardo, Fiera di Milano e istituto San Paolo. Ciò significa che l’azienda – come del resto le altre – è stata selezionata nel rispetto delle procedure di legge, magari secondo il criterio del massimo ribasso. È poi evidente la linea di condotta scelta dalla procura tende ad esaurire la questione a livello della indagine, senza arrivare alla sentenza di un giudice.
Il caso Mondialpol insegna: la società decise di dare corso ad un aumento unilaterale delle retribuzioni (in pratica pagò una sorta di riscatto) per liberarsi – come poi avvenne tramite la revoca – del controllo giudiziario. Queste discutibili iniziative aprono un nuovo capitolo per quanto riguarda il ruolo della magistratura inquirente nel campo del lavoro. La linea di condotta scelta dalla procura tende ad esaurire la questione a livello della indagine, senza arrivare alla sentenza di un giudice. La Cosmpol è indotta, nei fatti, a seguire l’esempio della Mondialpol: in pratica a pagare una sorta di riscatto per liberarsi – tramite la revoca – del controllo giudiziario. Così si completerà ciò a cui le procure aspirano: risolvere il contenzioso in fase di indagini, magari con l’aiuto della gogna mediatico-giudiziaria. Del resto, sappiamo come funzionano questi eventi: basta gonfiare un po’ la storia per indurre le aziende che si avvalgono di questi servizi a dare disdetta ai contratti, con l’azienda accusata di caporalato e di sfruttamento dei lavoratori.
Purtroppo nel clima di autodafé in cui si svolge il dibattito sul salario minimo, legale, queste azioni della procura più procura d’Italia, rischiano di apparire alla stregua di una valorosa difesa dei diritti conculcati, attraverso un intervento di supplenza e di sostituzione dell’inerzia delle autorità e delle parti sociali. Non è così. Il diritto penale, che già si è allargato a tal punto da regolare ogni momento del vivere civile ha cominciato ad invadere persino il diritto del lavoro è divenuto un diritto ancor più totale. Un grande penalista come Filippo Sgubbi denunciò in un saggio pubblicato da Il Mulino (Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi) le deformazioni del totalitarismo penale “perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua”. Totale “perché anche il tempo della vita individuale e sociale è occupato dall’intervento punitivo che, quando colpisce una persona fisica o giuridica, genera una durata della contaminazione estremamente lunga o addirittura indefinita, prima della risoluzione finale’’. E ancora, totale “soprattutto perché è invalsa nella collettività e nell’ambiente politico la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico ad ogni ingiustizia e a ogni male”.
Questa considerazione si invera nell’assalto giudiziario alle società di vigilanza privata. Ma come si fa ad applicare a questi casi la legge del 2016 contro il caporalato? I profili del reato sono evidenti fin dal primo articolo: vi incorre chi recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; chi utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al punto precedente, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro “stato di bisogno”. Questa condizione ha un senso se riferita – come prevede la legge – ad uno straniero clandestino, trasportato all’alba dal caporale su di un campo di pomodori. Ma non si può parlare in termini analoghi di “stato di bisogno” per un “vigilante”, perché con siffatta logica, chiunque lavori si trova in una condizione di bisogno, a meno di approfondire le caratteristiche particolari del personale che accetta quell’impiego.
Sappiamo che una giurisprudenza consolidata ha assicurato, sulla base dell’articolo 36 della Costituzione, la tutela di salari minimi anche in assenza di una estensione erga omnes dei contratti collettivi. Ciò in quanto – in caso di controversia – i giudici hanno sempre considerato “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa’’ la retribuzione di un lavoratore corrispondente a quanto previsto dalle tabelle salariali dei contratti stipulati dalle organizzazioni più rappresentative. In sostanza, la magistratura si rimetteva a quanto le parti sociali avevano sottoscritto in base alla loro autonomia contrattuale.
Nel caso delle aziende di vigilanza privata l’intervento giudiziario deborda fino a giudicare la congruità del contratto nazionale (per altro rinnovato da poco dalle federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil, dopo anni dalla scadenza di quello precedente e con decorrenza dal 1° giugno 2023 al 1° maggio 2026). Sui siti delle maggiori confederazioni sono pubblicati i contenuti di questo travagliato rinnovo che non si limitano alla cifra di 5,3 euro l’ora (pari a 930 euro lordi al mese) come ha denunciato la procura. Sulla parte economica l’ipotesi di accordo definisce un aumento a regime di 140 euro per il IV Livello GPG e per il Livello D dei Servizi Fiduciari. Più un’una tantum di 400 euro. Poi, chi ha deciso che i contratti devono stabilire – come unico elemento da prendere in considerazione per confermarne la correttezza – salari minimi al di sopra della soglia di povertà (un indicatore che di solito riguarda il nucleo familiare non il singolo individuo), ignorando la parte normativa e le misure di welfare aziendale? E che in caso contrario le aziende sono chiamate a rispondere sul piano penale? Se questa è un’ulteriore fattispecie di giurisprudenza creativa dovrebbero essere chiamate a rispondere di favoreggiamento anche le organizzazioni sindacali firmatarie.
Un’ultima considerazione: come altro dovrebbe comportarsi un’impresa iscritta ad una associazione a cui è affidato il mandato a contrattare con le controparti naturali se non applicare correttamente quanto da loro stabilito e sottoscritto nel contratto stesso? Tanto varrebbe, per coerenza, impugnare il contratto nazionale “fellone” anziché perseguitare le aziende che lo applicano. Nonché imputare di concorso in reato tutti gli appartenenti alle delegazioni che hanno preso parte al negoziato. Figurarsi che bella retata! Non ci sarà un po’ di nostalgia per il ruolo svolto dalla magistratura del lavoro durante il periodo corporativo? Si parte sempre da sinistra per arrivare a destra. È la solita storia del “Buscar el levate por el ponente”.
Membro del Comitato scientifico ADAPT