Considerando che oggi, per quanto riguarda il sindacato e le relazioni industriali, esiste ben poco che valga la pena di raccontare, continuiamo a ripercorrere, nella rubrica, itinerari molto più interessanti (almeno dal punto di vista di chi scrive).
Mi è stato obiettato più volte che non tutti i sindacati sono uguali e che anche adesso talune confederazioni e federazioni di categoria ritengono di avere il diritto di definirsi ‘’moderne’’. Sarà anche vero: il fatto è che, nell’ambito del movimento sindacale (è più o meno sempre stato così) ‘’la moneta cattiva scaccia quella buona’’. Ed è altrettanto vero che, analizzando con attenzione e senza pregiudizi, le esperienze attuali si possono trovare soluzioni interessanti ed innovative. Il punto critico è un altro: manca o è in grave ritardo una capacità di adeguamento, alle nuove realtà produttive e del mercato del lavoro, delle istituzioni-pilastro del rapporto di lavoro.
Che cosa c’è di più cruciale, ad esempio, del sistema di classificazione del personale ? In questa materia, però, le relazioni industriali sono tuttora ferme a più di 40 anni orsono: al c.d. inquadramento unico. Gli studenti, nei manuali di diritto del lavoro, si sono cimentati con i concetti di categoria, qualifica e mansioni. Poi avranno sicuramente letto qualche passo riguardante l’inquadramento unico e il concetto di livello retributivo. Per fissare ancora di più queste fondamentali nozioni è il caso, forse, di fare un po’ di storia.
La svolta dell’inquadramento unico caratterizzò profondamente il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici del 1972. La classificazione professionale dei lavoratori era raggruppata in tre macro-categorie: impiegati e tecnici, c.d. equiparati, operai. Ognuna di queste categorie era contraddistinta da un certo numero di livelli (in rapporto ai quali erano previsti i differenziali retributivi e, quindi, le retribuzioni contrattuali minime). All’interno dei livelli erano ricomprese delle qualifiche (esempio: saldatore, tornitore se operaio) ritenute meritevoli di uguale riconoscimento professionale e quindi retributivo. Ogni livello era caratterizzato da un parametro. In sostanza, fatta uguale a 100 la paga del livello più basso (il c.d. manovale comune), i parametri definivano quanto dovesse essere superiore la retribuzione minima degli altri livelli (se ben ricordiamo, l’operaio specializzato, ad esempio, era a livello 132, quello qualificato a livello 118: il che significava che la loro retribuzione base oraria era superiore rispettivamente del 32 e del 18 per cento di quella del manovale comune).
La classificazione, ereditata dal periodo corporativo e trascinata fino agli anni del post-autunno caldo, conteneva un palese discrimine. Come se si trattasse di vere e proprie caste, i livelli degli impiegati, compresi quelli c.d. ‘’d’ordine’’ erano comunque più elevati di tutti i livelli degli operai (anche di quanti avevano una professionalità di tutto rispetto). In mezzo stavano gli ‘’equiparati’’, una categoria istituita dal fascismo ‘’repubblichino’’ nel tentativo di ingraziarsi le élites operaie. Pensata inizialmente per inquadrare i lavoratori manuali di alta esperienza e specializzazione, nel dopoguerra essa era diventata la categoria dei ‘’capi’’ della grande impresa, chiamati a svolgere, nell’organizzazione tayloristica del lavoro, il compito del ‘’caporale di giornata’’ nei confronti dei lavoratori. In sostanza, erano operai ‘’equiparati’’ agli impiegati.
Ad ognuna di queste categorie (i dirigenti dell’industria hanno sempre avuto una loro autonomia contrattuale) corrispondevano non solo una specifica gerarchia professionale, ma anche differenti trattamenti normativi, le cui radici risalivano addirittura al 1924, quando venne varata le legge sull’impiego privato e quando le teorie giuridiche del tempo giustificavano delle vere e proprie differenze di status con una definizione sintetica, ma molto efficace: ‘’l’impiegato collabora all’impresa, l’operaio nell’impresa’’.
Mentre sul piano dei regimi normativi (ferie, scatti di anzianità, indennità economica e trattamenti di malattia, ecc.) erano stati compiuti, già nei contratti precedenti, taluni interventi di armonizzazione normativa tra le differenti categorie, nel 1972 (dopo aver sperimentato l’operazione nella siderurgia di mano pubblica attraverso la contrattazione aziendale, facilitata dall’esistenza di sistemi di job evaluation) le federazioni dei metalmeccanici ‘’andarono all’assalto del cielo’’; ed ottennero nel rinnovo del contratto nazionale il c.d. inquadramento unico, consistente in un progetto di classificazione in cui le qualifiche operaie e quelle impiegatizie erano valutate per la loro capacità professionale e non per il loro status.
L’allineamento degli operai nei confronti degli impiegati avvenne in due punti: l’operaio qualificato agganciato al medesimo parametro dell’impiegato d’ordine, mentre un gruppo ulteriormente selezionato di operai specializzati (i c.d. superspecializzati) era intersecato con taluni profili di impiegati di livello elevato. Questa operazione diede luogo ad un lungo ed accurato lavoro di stesura e di definizione delle declaratorie e di nuovi profili professionali, nonché ad una vera e propria ristrutturazione del contratto.
Nei tradizionali testi precedenti, ogni categoria aveva uno spazio specifico distinto da quello delle altre. Nel contratto del 1972 si creò un’ampia parte normativa comune, mentre restarono separate le residue differenze attribuite alle tre grandi categorie sopraccitate (l’inquadramento unico, infatti, non aveva modificato il differente stato giuridico che connotava gli impiegati rispetto agli operai). E’ opportuno ricordare – sul piano della tecnica contrattuale – che i contenuti degli accordi di rinnovo (stipulati a conclusione delle vertenze) richiedono di essere inseriti nel testo previgente. Ciò comporta, di solito, un lavoro suppletivo delle delegazioni che affrontano il negoziato. In quell’occasione si trattò di un’attività di stesura che durò alcuni mesi (peraltro nel rinnovo del 1972 scese per la prima volta in campo, dalla parte imprenditoriale, la Federmeccanica), anche perché venne compiuta un’opera di pulizia e di adeguamento alla giurisprudenza di tutte le norme contrattuali (molte delle quali risaliva ancora al periodo corporativo). Fu quindi di un’operazione importante (anche per altre innovazioni introdotte). Il fatto è che, quarant’anni dopo, le cose non hanno avuto dei cambiamenti di particolare rilievo.
Membro del Comitato scientifico di ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus