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Purtroppo sono ancora tanti gli italiani disposti ad acquistare un’auto usata da Luigi Di Maio. Sarebbe bene tuttavia accertarsi dell’effettivo chilometraggio che la vettura porta in dote, perché il rivenditore pentastellato non esita a manomettere il contachilometri. Così dopo un po’ di tempo quelle auto vanno in panne. Il ministro del Lavoro, del resto, amministra il delicato settore di cui è titolare come se fosse “nato ieri” (dal titolo di un bel film in bianco e nero made in Usa) e fosse autorizzato, dal suo ruolo, a dire tutto ciò che gli passa per la testa – incurante delle smentite – in quanto portatore di una verità rivoluzionaria che si invera da sé, anche quando è palesemente il contrario della verità (Giancarlo Pajetta, un vecchio comunista d’antan, una volta affermò che tra la verità e la rivoluzione, lui avrebbe scelto la rivoluzione).
Chi non ricorda la “manina” – accusata di essere strumento di una congiura internazionale contro il governo del popolo – rea di aver inserito – fraudolentemente – una tabella nella relazione tecnica del decreto dignità, nella quale si attestava la perdita di posti di lavoro in conseguenza della controriforma del lavoro a termine? Il testo conteneva persino una norma di copertura per le minori entrate derivanti da quelle misure, ma Di Maio continuava ad insistere nella sua teoria del tentativo di “colpo di Stato” da parte dei poteri forti. Poi, una volta approvato il decreto, il ministro intonò il de profundis per il jobs act, dimostrando di non sapere che la nuova disciplina dei contratti a tempo determinato era antecedente al pacchetto riconducibile alla legge n.183 del 2014: il jobs act, appunto).
Ma fino a qui si tratta di sottigliezze. È invece assai più rilevante l’ignoranza esibita dal ministro per quanto riguarda la disciplina del licenziamento, materia travagliata e cruciale del diritto del lavoro. Arriviamo all’accordo Ilva. Dopo una gestione assai discutibile (la dichiarazione urgente alla Camera nella quale furono denunciate gravi irregolarità nel bando e nell’assegnazione dello stabilimento ad Arcelor-Mittal; i pareri chiesti all’Anac e all’Avvocatura dello Stato con l’obiettivo mancato di trovare una copertura; la minaccia di revoca; l’accusa di “delitto perfetto” e quant’altro) indossata la giacca da ministro dello Sviluppo (e attraversata Via Veneto per passare da una poltrona all’altra) Di Maio riuscì a chiudere la vertenza. C’è chi sostiene che il caos finale sia servito per strappare migliori condizioni di quelle di cui si era accontentato Carlo Calenda: ma non è questo l’aspetto che ci interessa. Tornato al Lavoro, il nostro non ha perduto l’occasione di prendersela nuovamente con il jobs act. “Non ci saranno esuberi e non ci sarà il Jobs Act nell’azienda”, rimarcò tronfio il vicepremier e ministro Luigi Di Maio, perché “i lavoratori saranno assunti con l’articolo 18”. Il fatto è che l’applicazione della disciplina del recesso secondo l’articolo 18 – come novellato dalla legge n.92 del 2012 – non è una conquista del valoroso ministro, ma un’automatica conseguenza delle norme vigenti. È infatti noto – tranne che a Di Maio – che il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (dlgs n.23/2015) può essere applicato solo agli assunti dal 7 marzo 2015 in poi. Per tutti gli altri continua a valere la previgente normativa. Pertanto non essendo nuovi assunti (perché non licenziati dalle precedenti gestioni) i dipendenti dell’Ilva è normale che a loro (come per la grande maggioranza dei lavoratori subordinati italiani) sia confermata la tutela prevista dall’articolo 18. L’articolo 2112, comma 1, del codice civile è molto chiaro in proposito: “In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”.
Ma non c’è limite al peggio. È successo che il solerte ministro si sia recato davanti a cancelli della Bekaert, a Figline Valdarno, dove ben 318 lavoratori hanno perduto il posto di lavoro. In quell’occasione Di Maio ha scoperto che, avendo l’azienda cessato l’attività, a quei lavoratori non spettava la cassa integrazione. Si tratta di una misura opportuna che ha chiuso faticosamente un’era di pratiche scandalose. Quando un’azienda chiude definitivamente i battenti, non ha senso, infatti, applicare il regime di cassa integrazione alle maestranze (come si faceva una volta, per molti anni e talvolta per decenni) essendo l’istituto finalizzato a coprire e a tutelare i lavoratori durante un periodo (che nei casi di riconversione, ristrutturazione e riorganizzazione può essere di anni) a conclusione del quale l’azienda ha la possibilità di ripartire risanata. È inutile fingere che dei disoccupati stiano ancora alle dipendenze di una “scatola vuota”. La Naspi e le misure di politiche attive sono lì apposta per tutelare queste persone. Lo stesso reddito di cittadinanza – a prenderlo per un momento sul serio – dovrebbe essere incompatibile con un ritorno all’uso improprio della cig “a babbo morto”. Ma a Di Maio questa scoperta ha provocato un attacco di indignazione tanto che alcuni giorni dopo, a Genova, si è lanciato in un’invettiva contro quella infamia (non accorgendosi che ad essere infami erano solo le sue parole): “Sia dannato il giorno in cui venne fatto il jobs act. Chi lo ha fatto non deve essere chiamato statista ma assassino politico”. Allora promise che avrebbe rimediato al grave vulnus inferto ai diritti dei lavoratori, inserendo una norma riparatrice nel c.d. decreto Genova (n.109/2018). Così è stato. E tutti giù a ringraziare questo ministro che mantiene la parola data. Tanto che Di Maio ha potuto postare su facebook una lettera inviatagli dalla presidentessa del Consiglio comunale della città toscana in cui viene elogiato al pari di un Garibaldi redivivo: “Proprio grazie al suo impegno e al lavoro prezioso del Governo, è stato approvato il Decreto legge n. 109 del 28 settembre scorso, e il susseguente accordo con la proprietà Bekaert che all’articolo 44 ha reintrodotto la Cassa integrazione per cessazione di attività. Tutti i lavoratori, e non solo quelli dello stabilimento di Figline, possono ora tornare ad usufruire di un diritto che era stato abolito nel 2015 con l’approvazione del Job act”.
Chi volesse rendersi conto di come stiano davvero le cose è bene che vada a leggere il testo dell’articolo 44 citato. E magari, se vuole capire quale assassinio politico ha compiuto il jobs act in materia, si prenda la briga di consultare l’articolo 21 del dlgs n.148 del 2015. Per evitare ai lettori incuriositi di perdere tempo nelle ricerche, riportiamo i due testi nella scheda. Non ci vorrà molto per capire che nei testi dei due provvedimenti, sono identiche le “causali di intervento” che possono consentire l’autorizzazione ad un ulteriore periodo di cig straordinaria anche in caso di cessazione dell’attività produttiva da parte dell’impresa: è sufficiente che “sussistano concrete prospettive di rapida cessione dell’azienda e di un conseguente riassorbimento occupazionale”. Così Di Maio si è rivenduto – magari allargando un po’ le maglie – una prerogativa dei lavoratori che il jobs act non aveva mai abolito.
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SCHEDA
Art. 44 del decreto legge n. 109/2018
Trattamento straordinario di integrazione salariale per le imprese in crisi
1. In deroga agli articoli 4 e 22 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148, a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e per gli anni 2019 e 2020, può essere autorizzato sino ad un massimo di dodici mesi complessivi, previo accordo stipulato in sede governativa presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, anche in presenza del Ministero dello sviluppo economico e della Regione interessata, il trattamento straordinario di integrazione salariale per crisi aziendale qualora l’azienda abbia cessato o cessi l’attività produttiva e sussistano concrete prospettive di cessione dell’attività con conseguente riassorbimento occupazionale, secondo le disposizioni del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 25 marzo 2016, n. 95075, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 120 del 24 maggio 2016, oppure laddove sia possibile realizzare interventi di reindustrializzazione del sito produttivo, nonché’ in alternativa attraverso specifici percorsi di politica attiva del lavoro posti in essere dalla Regione interessata, nel limite delle risorse stanziate ai sensi dell’articolo 21, comma 4, del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148, e non utilizzate, anche in via prospettica.
Articolo 21 del dlgs n.148/2015
Causali di intervento
In deroga agli articoli 4, comma 1, e 22, comma 2, entro il limite di spesa di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016, 2017 e 2018, può essere autorizzato, sino a un limite massimo rispettivamente di dodici, nove e sei mesi e previo accordo stipulato in sede governativa al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, anche in presenza del Ministero dello sviluppo economico, un ulteriore intervento di integrazione salariale straordinaria qualora all’esito del programma di crisi aziendale di cui al comma 3, l’impresa cessi l’attività produttiva e sussistano concrete prospettive di rapida cessione dell’azienda e di un conseguente riassorbimento occupazionale. A tal fine il Fondo sociale per occupazione e formazione, di cui all’articolo 18, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, è incrementato dell’importo di cui al primo periodo per ciascuno degli anni 2016, 2017 e 2018. Al fine del monitoraggio della relativa spesa gli accordi di cui al primo periodo del presente comma sono trasmessi al Ministero dell’economia e delle finanze. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare entro 60 giorni dall’entrata in vigore del presente decreto, sono definiti i criteri per l’applicazione del presente comma.
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