Politically (in)correct – Piattaforma dei metalmeccanici: un atto di resa?

Bollettino ADAPT 23 settembre 2019, n. 33

 

Evidentemente mi sono distratto; così mi è sfuggito qualche passaggio importante nella politica rivendicativa dei metalmeccanici. Ero rimasto al rinnovo del contratto nazionale per il triennio 2017-2019. Se ben ricordo recava la data del 26 novembre 2016. In quei giorni suonarono le campane a festa: le tre organizzazioni di categoria avevano ritrovato, dopo anni, l’unità e sottoscritto il medesimo testo e, sul piano dei  contenuti erano stare all’altezza della sfida loro lanciata dalla Federmeccanica sul terreno dell’innovazione delle relazioni industriali. Soprattutto avevo apprezzato la svolta della Fiom che non solo era rientra nei ranghi (quando morirò aprite il mio cuore: vi troverete scritto FLM) ma era riuscita persino a far approvare dalla sua base con percentuali bulgare i punti di un accordo che anni prima sarebbero stati respinti con sdegno. 

 

Fu allora che mi persuasi della statura politica di Maurizio Landini (nonostante la mia pluridecennale  avversione per la dinastia dei sandinisti di cui Landini era l’erede in carica) il quale, aderendo a quel rinnovo e facendoselo approvare (anche per lui Parigi – l’ingresso in segreteria confederale – valeva una messa) aveva dato prova di una capacità di transfert non comune tanto da farsi seguire da quegli stessi lavoratori che in precedenza aveva chiamato a scioperare sui medesimi contenuti.  

 

Due giorni dopo quell’accordo scrivevo sul Quotidiano nazionale: “Oggi possiamo intravvedere, nei contenuti dell’accordo sottoscritto, le premesse di una svolta. L’apparato produttivo italiano ha accumulato un vero e proprio spread anche in materia di produttività e può recuperare un handicap di competitività, non solo con gli investimenti, ma anche attraverso un utilizzo più efficiente del fattore lavoro in tutti i suoi aspetti, riportando lo scambio tra retribuzione e prestazione laddove “girano le macchine”, favorendo la c.d. contrattazione di prossimità. Il Governo – aggiungevo –  ha rafforzato, nelle ultime leggi di bilancio, un quadro normativo ed economico che rende conveniente (mediante sgravi contributivi e fiscali) gli accordi sulla produttività e su iniziative di welfare aziendale. L’intesa tra Federmeccanica e sindacati si propone di spostare il peso della contrattazione a livello d’azienda, senza rinunciare ad un’istanza nazionale ed unitaria della categoria; riconosce un diritto soggettivo alla formazione e all’apprendimento in un contesto in cui saranno le capacità professionali acquisite a garantire, ancor prima delle tutele di legge, i lavoratori”. 

 

In sostanza, in quell’accordo del 2016  veniva ridimensionata la sacralità del contratto nazionale, che si riduceva a stabilire le retribuzioni minime e le loro variazioni ex post (ossia una volta che fosse emerso un differenziale effettivo con l’andamento delle retribuzioni ) sulla base dell’IPCA, “al netto degli energetici importati”. L’ammontare prevalente delle risorse, non impiegate in iniziative di welfare a carattere nazionale (previdenza complementare e sanitaria integrativa), sarebbero state gestite sul posto di lavoro. Certo, faceva la sua figura – secondo le migliori tradizioni della categoria – l’entrata in scena del diritto alla formazione e all’apprendimento, quale promozione di un arricchimento professionale del lavoratore  in grado di garantirgli un potere contrattuale individuale ed intrinseco da far valere, anche in autonomia,  nel rapporto di lavoro. 

 

Si vide subito che, in quell’occasione, le federazioni dei metalmeccanici non avrebbero “dato la linea”. Dapprima, si sviluppò un dibattito con i chimici relativamente alla rivalutazione ex post del salario. Ma la presa di distanza più netta venne dal segretario della Fillea-Cgil, Alessandro Genovesi, che, sul Diario del Lavoro, scrisse: ‘’ Per noi  il contratto collettivo nazionale di lavoro deve essere anche sul versante salariale un’autorità fondamentale nel tutelare non solo il potere di acquisto ma anche nel riconoscere elementi specifici che variano da settore a settore (andamento di mercato, innovazione organizzativa, esportazioni, profitti e ricavi), con aumenti salariali che aiutino il rafforzamento della stessa domanda interna’’. 

 

In effetti, il richiamo di Genovesi era coerente con quanto Cgil, Cisl e Uil, dopo mesi di laborioso confronto, avevano indicato, a settembre di quello stesso anno, nel documento ‘’Un moderno sistema di relazioni industriali’’. Relativamente al ruolo del contratto nazionale di categoria era previsto che: ‘’Il contratto nazionale, con la determinazione delle retribuzioni, dovrà continuare a svolgere un ruolo di regolatore salariale, uscendo dalla sola logica della salvaguardia del potere d’acquisto, che nasceva da un’esigenza di contenimento salariale in anni di alti tassi di inflazione, per assumere nuova responsabilità e ruolo. Le dinamiche salariali dovranno, così, contribuire all’espansione della domanda interna, a contrastare le pressioni deflattive sull’economia nazionale, a stimolare la competitività delle imprese e la loro capacità di creare lavoro stabile e qualificato, nonché a valorizzare, attraverso una equa remunerazione, l’apporto individuale e collettivo delle lavoratrici e dei lavoratori’’. In sostanza, veniva gettata alle ortiche – non per andare più avanti, ma per tornare alla prassi precedente – anche l’actio finium regundorum contenuta nel Protocollo del 1993 che, almeno formalmente, aveva regolato le relazioni industriali fino a quel momento. 

 

Con il crollo dell’inflazione e del prezzo dei prodotti petroliferi i parametri del 1993 (aggiornati con l’IPCA)  si erano rivelati inadeguati, al punto da legittimare gli imprenditori a chiedere la restituzione di aumenti salariali non dovuti. Così le confederazioni sindacali – nel loro documento – cambiarono le carte in tavola e proposero di trasformare il contratto nazionale in uno strumento di incremento retributivo per un’intera categoria sulla base di criteri cervellotici e pretestuosi. Fino a quel momento il dibattito sindacale si era sforzato di riconoscere alle imprese la possibilità di erogare miglioramenti retributivi ai propri dipendenti, in una logica di scambio con una migliore qualità del lavoro e una maggiore produttività, attraverso lo sviluppo della c.d. contrattazione di prossimità, sostenuta – lo abbiamo ricordato – anche da misure di incentivazione e  detassazione. 

 

Ma le cose cambiano e così anche le linee rivendicative dei sindacati. Anche i metalmeccanici si sono adeguati. Ai primi di settembre – cinquantenni dopo l’inizio della vertenza contrattuale dell’autunno del 1969 – i leader di Fim, Fiom e Uilm hanno illustrato in una conferenza stampa il carnet rivendicativo per il rinnova 2020-2022 da sottoporre alla consultazione della categoria. Pure questa volta i metalmeccanici hanno voluto “farsi riconoscere” con qualche idea innovativa. Nella piattaforma – presentata il 3 settembre –  il punto di forza, oltre ad un ampliamento dei diritti di partecipazione dei lavoratori,  riguarda quello che viene definito il contratto delle competenze (inquadramento, certificazione, formazione), in linea di continuità con quel diritto alla formazione quale nuovo cardine di valorizzazione e autotutela del capitale umano. 

 

Va sottolineato, tuttavia, un sostanziale passo indietro rispetto all’enfasi posta, nel precedente contratto 2017-2019, sulla contrattazione di prossimità. Spicca, infatti, la rivendicazione di un incremento  salariale dell’8%, che dovrebbe compensare la scarsa diffusione della contrattazione aziendale specie nelle piccole imprese, ma che nei fatti riconsegna un ruolo primario e centralizzatore alla contrattazione nazionale di categoria. La piattaforma non è reticente a questo proposito: ‘’Riconfermiamo – è scritto – il modello scaturito dal Ccnl del 26 novembre 2016 che ha prodotto la riconferma dei due livelli di contrattazione e numerose innovazioni contrattuali per i lavoratori, ma l’esigibilità di questo modello, introdotto in via sperimentale, ha avuto un’efficacia molto al di sotto delle aspettative nella diffusione della contrattazione decentrata e con essa la capacità di distribuire profitti e produttività’’. Si ritorna così a remunerare una produttività che – a livello di categoria – è una pura invenzione, soltanto perché non la si riesce a contrattare laddove essa si produce. E’ un atto di resa?

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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