Uno dei più discussi nodi giuspedagocici della difficile situazione dei giovani nel mercato del lavoro occidentale e, in particolar modo, in quello italiano, è il disallineamento formativo e professionale, inteso come la distanza tra profili formati dal sistema di istruzione e formazione e la richiesta di competenze specifiche del mercato del lavoro.
1.Sovraistruzione e sottoinquadramento
Nella sua accezione economica, non giuridica (ambiente lessicale che rimanda al procedimento operato sulla base di categoria, qualifica e mansione per classificare, inquadrare, il personale dipendente), il termine «sottoinquadrato»[1] individua un lavoratore che svolge una mansione che comporta il possesso di minori competenze e abilità rispetto a quelle effettivamente possedute.
Considerato che solitamente il salario è connesso alla complessità della mansione e alla rarità delle competenze che occorrono per svolgerla, tale fenomeno comporta la percezione di uno stipendio più basso rispetto a quello che si sarebbe potuto ottenere trovando un posto di lavoro corrispondente alla propria preparazione. Dal punto di vista del lavoratore, il possesso di un livello di istruzione superiore a quello necessario per svolgere la mansione è definito overeducation (sovraistuzione).
Diversi studi economici segnalano come in Italia si osservi un fenomeno rilevante di overeducation[2]. Nel 2010[3] la sovraistruzione interessava il 19% dei lavoratori italiani e il 42,2% dei lavoratori stranieri occupati in Italia.
Una cifra elevata e in costante crescita. Circa il 50% dei sottoinquadrati sono giovani under 35, che entrano nel mondo del lavoro attraverso posizioni che non richiedono il titolo di studio da loro posseduto.
Coloro che più facilmente (oltre l’85% dei casi) svolgono un lavoro coerente con gli studi effettuati sono i giovani ingegneri, addetti al settore chimico-farmaceutico e medici o specializzandi medici. Al contrario, il 60% dei laureati dei settori disciplinari giuridici e letterari è impiegata in posizioni di lavoro incoerenti o per le quali non occorre la laurea.
2.Gli indicatori del disallineamento formativo e professionale e il paradosso italiano
Se questi sono i dati, come mai continua ad essere piuttosto elevata la percentuale di iscritti ai corsi che le statistiche dimostrano non essere apprezzati dal mercato del lavoro? Da questa domanda apparentemente banale nascono le riflessioni scientifiche sul c.d. disallineamento (mismatch) formativo e professionale.
Internazionalmente sono tre le tipologie di mismatch misurate[4]: vertical mismatch (calcolato da Eurostat con l’indicatore education/occupation mismatch); under/over-qualification (misurato dall’indicatore skill mismatch aggiornato dall’OECD); vertical/horizontal mismatch (misurato ancora da Eurostat con l’indicatore qualification mismatch).
Quest’ultimo indicatore misura più specificamente l’occupabilità dei laureati, andando a vedere a cinque anni di distanza dal conseguimento del titolo come si distribuiscono nel mercato del lavoro, distinguendo le occupazioni per le quali è necessario un titolo terziario e quelle per le quali non occorre.
L’indicatore dell’OECD analizza invece la struttura del mercato del lavoro, confrontando il numero di posti skilled con il numero delle persone che hanno il titolo di studio adatto per occuparli.
Infine, il primo indicatore Eurostat misura la quota di laureati che va a svolgere impropriamente lavori a loro non destinati.
I valori calcolati per l’Italia sono abbastanza in linea con quelli degli altri paesi per quanto attiene al primo indicatore, mentre lo skill mismatch segnala un numero di posti skilled maggiore di 2,3 volte il numero dei possessori delle competenze ricercate.
Per il prossimo decennio il CEDEFOP prevede una robusta crescita della quota delle professioni specializzate e tecniche e un altrettanto decisa crescita delle forze di lavoro con livelli di istruzione terziaria.
La dinamica occupazionale italiana non coincide esattamente con le previsioni europee: ad un costante incremento di occupati con istruzione terziaria, di poco superiore alla media europea, non è corrisposto nell’ultimo decennio un aumento delle professioni high-skilled, che risultano invece diminuite.
Di conseguenza l’incremento dei laureati non è correttamente assorbito dal mercato del lavoro degli “alti profili”. La contemporanea crescita del numero dei laureati e stabilità del numero di posti di lavoro idonei alla loro preparazione è una delle spiegazioni del rilevante fenomeno del sottoinquadramento rilevato dall’ISTAT.
Questo dato può apparire in contraddizione con i descritti esiti dell’indicatore skill mismatch, ma è semplice sciogliere il dilemma: la maggior parte dei laureati acquisisce un titolo di studio poco richiesto dal mercato del lavoro.
3.Le ragioni del disallineamento e la risposta della politica
La ragione della distanza tra competenze da formare e competenze formate è (non solo, ma in buona parte) da ricercarsi tra l’inadempienza delle istituzioni preposte e la “solitudine” informativa di famiglie e giovani al momento della scelta formativa.
La tendenza delle famiglie italiane a spingere i giovani verso un aumento dell’investimento in capitale umano e nello sviluppo di competenze è un fenomeno potenzialmente positivo.
Solo che tale processo avviene disordinatamente, orientato verso discipline di natura umanistica che non offrono livelli di occupabilità adeguati.
La responsabilità di questa “anarchia” è da ascriversi alla assoluta assenze di adeguate politiche di orientamento, sia pubbliche che private. Le scuole, le università e le istituzioni non aiutano le famiglie e i ragazzi a conoscere le potenzialità occupazionali dei percorsi scelti.
Cosicché si scopre alla fine degli studi che il titolo conquistato è “mal visto” dalle imprese. Questa tardiva coscienza genera quel diffuso senso di frustrazione (sintomo del vero precariato, inteso più come situazione personale che come stato contrattuale) determinato dall’accorgersi che non è possibile fare il “lavoro che si è sempre sognato”.
Per ovviare alle proprie mancanze, lo Stato ha messo in campo, ancor più in periodo di crisi, una serie di tentativi per superare il mismatch e, di conseguenza, intervenire anche sugli allarmanti tassi di occupazione e disoccupazione giovanile. Particolarmente interessanti sono due di questi interventi: uno informativo/statistico, l’altro normativo.
Il primo. Solo molto recentemente anche le istituzioni italiane hanno incominciato ad affinare statistiche utili a inquadrare con precisione la richiesta di competenze delle imprese. Il più noto di questi strumenti è il «Sistema informativo per l’occupazione e la formazione» Excelsior, creato nel 1997 dall’Unione Italiana delle Camere di Commercio Industria, Artigianato e Agricoltura (Unioncamere), in collaborazione con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e con l’Unione Europea.
Il Sistema ricostruisce trimestralmente il quadro previsionale della domanda di lavoro e dei fabbisogni professionali e formativi espressi dalle imprese, fornendo così indicazioni che vorrebbero essere utili alle scelte di programmazione della formazione, dell’orientamento e delle politiche del lavoro.
Tecnicamente Unioncamere compie un’indagine su una base campionaria di 240.000 imprese; si tratta di 60.000 interviste a trimestre distribuite su scala provinciale, cosicché ogni rapporto trimestrale contiene allegato anche un bollettino per ognuna 105 province italiane.
Le indagini sul sottoinquadramento solitamente si concentrano su ciò che i laureati non trovano; i risultati dell’indagine Excelsior ribaltano il punto di osservazione e permettono di conoscere ciò che le imprese cercano. Leggendo i risultati esito dei diversi rapporti, risulta ancor più evidente il paradosso dell’occupazione giovanile italiana: nonostante gli allarmanti dati sulla disoccupazione, e ancor più sulla inattività, le imprese dichiarano essere di «difficile reperimento» il 12% delle assunzioni non stagionali (era addirittura il 26% in piena crisi)[5].
Il secondo. È ormai noto anche ai non addetti ai lavori che la Germania è l’unico paese occidentale nel quale il tasso di disoccupazione giovanile durante la crisi non solo non è cresciuto, ma addirittura è diminuito.
Le istituzioni internazionali hanno individuato le ragioni di questo risultato nel sistema duale che caratterizza i percorsi istruttivi e formativi dei paesi di lingua tedesca. In particolare all’apprendistato scolastico sono ascritti i principali meriti della riuscita transizione dalla scuola al lavoro che contraddistingue Germania, Austria e Svizzera.
Non è quindi un caso che l’Unione europea raccomandi a tutti gli Stati membri di costruire canali formativi professionali in apprendistato efficienti e che il competente Ministero tedesco abbia firmato con i Paesi più esposti alla piaga della disoccupazione giovanile (quindi anche con l’Italia, nel 2012) degli accordi di partenariato finalizzati all’esportazione del modello germanico.
Proprio per adattare le regole del nostro diritto del lavoro a quelle delle migliori pratiche europee, in Italia la normativa sull’apprendistato è cambiata cinque volte in cinque anni[6]: dal Testo Unico dell’Apprendistato del 2011 alla nuova disciplina organica dei contratti di lavoro immaginata dal Jobs Act, passando per Riforma Fornero, Pacchetto Letta-Giovannini e decreto Poletti[7].
4.La sfida per le politiche del lavoro e della formazione
Il fideismo nazionale ed europeo verso l’istruzione e formazione work-based e, di conseguenza, il sostegno al contratto di apprendistato come politica attiva più che come dispositivo didattico appare a forte rischio di anacronismo[8].
Rilevantissimi fenomeni socioeconomici come l’affermazione della sharing/on demand economy, la quarta rivoluzione industriale, Industry 4.0, la società della conoscenza etc… mettono in discussione qualsiasi politica di contrasto al mismatch formativo e professionale e alla disoccupazione giovanile che intenda formare oggi le competenze specifiche del lavoratore del futuro.
Di conseguenza, minore peso assumono anche indagini come quella operata da Unioncamere, poiché si farebbe un pessimo servizio ai giovani qualora si funzionalizzasse la loro formazione a professioni che potrebbero essere scomparse quando saranno terminati gli studi.
Oggi ancor più che nel passato ogni vera esperienza formativa non può avere come orizzonte l’occupabilità a breve termine, ma la formazione della coscienza viva della persona, la sua capacità di cambiamento e di apprendimento, senza che questo diventi vuoto trasversalismo o inutile nozionismo. Il giovane che sceglie oggi un percorso secondario superiore incontrerà alla fine degli studi un mercato del lavoro diverso da quello attuale.
Mai in passato la pedagogia e il diritto del lavoro hanno dovuto confrontarsi con un mondo così “liquido”. Per anni le politiche del lavoro e della formazione, non solo italiane, hanno creduto di poter risolvere la distanza tra competenze richieste e competenze formate strutturando percorsi di formazione professionale estremamente specifici e operativi.
L’inedita e dirompete trasformazione in atto indebolisce fortemente i sistemi educativi basati su tecniche didattiche utili a trasmettere conoscenze, nozioni e abilità e a fare emergere competenze vincolate a mansioni e produzioni specifiche, delle quali è impossibile conoscere la sopravvivenza in futuro; allo stesso modo indebolisce i sistemi educativi e formativi orientati alla istruzione generalista e di base, incapace di fare emergere competenze trasversali e versatilità.
La società della conoscenza che va costruendosi non accetterà lavoratori ammaestrati a svolgere acriticamente il proprio compito o colmi di nozioni che non riescono a tradurre in azione, ma ha bisogno, in ogni ambito produttivo, di collaboratori (prima ancora che “dipendenti”) capaci di innovare, competere, gestire l’incertezza. I Paesi che riusciranno a vincere questa sfida pedagogica saranno gli stessi che domineranno economicamente il mondo di domani.
Presidente ADAPT
@EMassagli
pubblicato in europei
* Estratto da Italianieuropei, n. 2/3, aprile 2016, pp. 96-101
[1] Da non confondersi col “sottoccupato”, che è chi lavora meno ore di quante vorrebbe.
[2] Si vedano Laj Stefano, Raitano Michele, L’utilizzo del capitale umano in Italia, in Pizzuti Felice Roberto (a cura di), Rapporto sullo stato sociale, Utet, Torino.
[3] Istat, Rapporto annuale 2010, Roma, 2010; i rapporti degli anni successive non si sono occupati specificamente dell’argomento.
[4] Centro Studi LUISS di Economia della Formazione e delle Professioni, Mismatch tra domanda e offerta di lavoro: i principali indicatori di fonte internazionale, Atti del convegno Formazione, competenze e competitività delle imprese, 11 Novembre 2011, Università LUISS Guido Carli, Roma. Si rimanda ai citati atti per la ricostruzione delle formule di calcolo degli indicatori.
[5] Dati del Sistema Informativo Excelsior, anno 2015.
[6] Tiraboschi Michele, Apprendistato: una riforma calata “dall’alto” in Tiraboschi Michele (a cura di), Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, Giuffrè, Milano, 2016
[7] In ordine di citazione: decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167; decreto Legislativo 15 giugno 2015 n. 81; legge 28 giugno 2012, n. 92; decreto-legge 28 giugno 2013, n. 76 convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 99; decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34 convertito con modificazioni dalla legge 16 maggio 2014, n. 78
[8] Massagli Emmanuele, Alternanza formativa e apprendistato in Italia e in Germania, Edizioni Studium, Roma, 2016