Il 17 gennaio, Confindustria Pordenone ha presentato il documento Pordenone, laboratorio per una nuova competitività industriale, elaborato dai suoi uffici e da un brain trust composto da Tiziano Treu, Riccardo Illy, Innocenzo Cipolletta e Maurizio Castro, per indicare la traiettoria delle iniziative da adottare con urgenza per fermare la crisi delle sue aziende più rappresentative, dall’Electrolux erede della Zanussi e dall’Ideal Standard sino a tutto il comparto del legno-arredamento, e per costruire le condizioni per la ripartenza della manifattura in un’area non a caso a lungo appellata “la Manchester d’Italia”. Al documento, è allegata un’ampia e organica “Proposta di accordo territoriale” per il conseguimento d’un cospicuo miglioramento nei parametri di costo e di produttività del fattore lavoro.
La vicenda s’incastona in una fase cruciale del confronto in atto, per vero in modo un po’ strascicato e confuso, tra le Organizzazioni sindacali metalmeccaniche e il Gruppo Electrolux, con la mediazione annunziata del Governo. Il Gruppo, infatti, che ha perduto da tempo – dopo i fasti degli Anni Novanta succeduti all’acquisizione di Zanussi, di AEG e di Frigidaire – la leadership internazionale nel settore dell’elettrodomestico dovendosi accontentare della seconda posizione sia in Europa occidentale alle spalle di Bosch sia in Europa orientale alle spalle di Samsung, ha avviato il processo di delocalizzazione verso la Polonia e l’Ungheria delle proprie produzioni italiane, oggi articolate nei quattro grandi stabilimenti di Porcia (lavatrici), di Susegana (frigoriferi), di Solaro (lavastoviglie) e di Forlì (forni). È alle battute finali la fase della cosiddetta “investigazione”, ma non occorre aver origliato alle porte del Board per sapere che il rischio di dismissione di siti storici come Porcia è alto e concreto. Per intenderci sulla posta in gioco: la chiusura di Porcia, alle porte di Pordenone, cui seguirebbe la traslazione all’Est di tutto il relativo indotto di componentistica, significherebbe un colpo mortale per l’economia friulana, in termini di distruzione irreparabile di ricchezza, competenza, occupazione. Si tratterebbe di una deindustrializzazione insieme violenta ed enorme, senza la possibilità di far intervenire, nell’attuale quadro di finanza pubblica, pressoché nessuna delle generose forme di supporto riconosciute ai territori a suo tempo colpiti da fenomeni di analoghe proporzioni.
Di fronte a questa minaccia micidiale, Confindustria di Pordenone, interpretando in modo coraggioso e innovativo il suo ruolo di rappresentanza di un’intera comunità imprenditoriale, ha radunato alcuni “saggi” con storie, culture e appartenenze assai diverse ma uniti dalla stessa passione per il rilancio dell’industria nazionale nello scacchiere globalizzato, perché producessero un piano straordinario di salvataggio del territorio. La loro proposta è articolata e complessa, mescola elementi di contenimento congiunturale dei costi e di impegno strategico sull’innovazione, propone uno “scambio” forte a tutti i soggetti istituzionali coinvolti tra maggiore responsabilità (e dunque maggiori oneri) e maggiore partecipazione (e dunque maggiori opportunità).
Due succinte osservazioni metodologiche mi siano consentite. La prima: lectio facilior, per l’associazione datoriale friulana, sarebbe stata quella di limitarsi a prestare assistenza tecnica al più importante dei suoi soci e contributori. Invece, essa, davvero dando concretezza al principio lectio difficilior potior, ha preferito – secondo la migliore tradizione italiana della confederalità ovvero della veicolazione dell’interesse generale anche nell’esercizio del proprio ruolo di parte – sottoporre al confronto un’ipotesi contrattuale capace di integrare la prospettiva dello specifico miglioramento competitivo di un’azienda con quella dello sviluppo corale di un’area, sfidando in termini di accountability di condotte ed esiti, e dunque sul suo stesso terreno, l’approccio “a-nazionale” e “de-contestualizzato” della multinazionale.
La seconda. Nel faticoso e tormentato processo di conversione dalla centralità del contratto nazionale a quella del contratto territoriale o aziendale, all’interno del quale la vicenda di Pordenone acquisirà in ogni caso, con il suo successo o con il suo fallimento, un ruolo assai rilevante, si trascura spesso il rilievo che, in termini di facilitazione o di inibizione, ricoprono le concrete esperienze e vocazioni in tal direzione. Ebbene, Pordenone vanta una robusta tradizione, spesso denunciata come eterodossa se non eretica dalla Confindustria centrale ma sempre protetta e garantita dalla Confindustria locale, di contrattazione provinciale, anche recentemente ribadita, nei cruciali comparti del legno e della meccanica. Ciò senza dubbio ha determinato la condensazione, in capo alle parti sociali pordenonesi, di una “competenza distintiva”, di un “sapere contrattuale”, idoneo a generare, in una contingenza così drammatica, in modo quasi naturale, la predisposizione di strumenti di regolazione pattizia bespoke, modulati sulla specificità “etno-industriale” del territorio di riferimento.
Per un pubblico specialistico come quello del Bollettino di ADAPT, la didascalica illustrazione dei contenuti della proposta è senz’altro ridondante. Mi limito a sottolinearne alcuni profili “politici”. La proposta prende atto che il Gruppo Electrolux ha posto a fondamento della propria volontà di revisione del suo impegno produttivo in Italia il maggior costo del lavoro domestico rispetto a quello delle concorrenti allocazioni in altri due Paesi dell’Unione europea (non asiatici, non africani, e neanche extra-UE!). E anziché scegliere la strada della rassegnazione impigrita o della protesta inconcludente, sceglie quella di accogliere la sfida, offrendo a Electrolux e insieme a tutte le imprese in crisi o in sviluppo del territorio l’occasione di organizzarsi contrattualmente in una “zona speciale manifatturiera”, al cui interno vigano regole incentivanti per gli insediamenti industriali in termini di flessibilità organizzativa e di efficienza competitiva. Lavorando secondo l’approccio che contrassegnò negli Anni Sessanta i trionfi di Colin Chapman e della sua Lotus, capaci di ottenere performance formidabili dalle loro autovetture alleggerendone con sapienza il peso e migliorandone l’aerodinamica senza costosi incrementi di potenza, i “saggi” hanno rimodellato e rimodulato molti istituti contrattuali, dai premi di produzione alle festività infrasettimanali, dagli orari di lavoro agli scatti di anzianità, dagli automatismi di inquadramento ai fondi sanitari integrativi, dalla partecipazione agli utili e al capitale alla formazione e all’outplacement, ottenendo il risultato di una riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto del 20%. Insomma, nessuna mutilazione, nessuna amputazione di questo o quell’istituto; ma una revisione dinamica, una precisa limatura e levigatura di molte voci e molti capitoli dell’impianto normativo e remunerativo del rapporto di lavoro.
All’occhio attento del frequentatore di ADAPT non sfugge come, a una siffatta riduzione del costo del lavoro, non corrisponda affatto un’analoga riduzione del reddito dei lavoratori di Pordenone. Anzi, è plausibile ritenere che essa possa essere agevolmente contenuta nella metà, e cioè in un 10% che situerebbe di fatto le retribuzioni oggetto della rimappatura sinallagmatica ben al di sopra dei minimi del contratto nazionale, e quindi in una condizione largamente migliore di quella di fatto praticata in moltissimi territori e in moltissime aziende del Paese. Non solo: praticando per un periodo definito nel tempo simili opportunità, da un lato si radicherebbero in loco le aziende oggi in difficoltà e in procinto di chiudere o di trasferirsi; dall’altro, se ne attirerebbero di nuove, richiamate dall’allineamento agli standard europei della struttura dei costi di un territorio comunque interessante per il suo patrimonio genetico di competenze tecnologiche e organizzative.
Né si dimentichi che la proposta prevede la sperimentazione di prassi di partecipazione tanto avanzate, anche nella prospettiva di una comparazione internazionale, da collocare il Friuli occidentale tra le aree a più alta intensità “cogestionale” dell’intero Occidente. Si pensi alla presenza, nel Laboratorio di Competitività, non solo di un Comitato di Sorveglianza a composizione mista dai poteri di coordinamento e di intervento assai penetranti e di uno special purpose vehicle per gestire condivise azioni di ristrutturazione e di salvataggio di aziende in crisi o di reindustrializzazione di siti dismessi, ma anche, e soprattutto, di Employees Stock Ownership Plans (ESOP), e cioè di quei programmi strutturati di azionariato dei lavoratori finora mai frequentati in Italia a livello territoriale. È insomma la prima volta che il trade-off offerto dalle associazioni datoriali alle organizzazioni sindacali si gioca non tanto sul terreno della razionalizzazione dei costi in cambio della tutela prospettica dell’occupazione, quanto piuttosto su quello della complessiva qualità e “densità” della governance comunitaria dei processi sociali ed economici chiamati a rimodellare la vocazione strategica di una provincia. Così come, in modo sommesso, va segnalato come la proposta non presupponga, per la sua compiuta funzionalità, alcuna concessione, né di tipo finanziario né di tipo concessorio, da parte delle pubbliche istituzioni e degli enti locali.
Il progetto pordenonese scommette, in tutta evidenza, sul fatto che in Svezia esista una tradizione imprenditoriale che, dai Wallenberg proprietari di Electrolux al Kamprad fondatore di IKEA, ha sempre creduto nello straordinario talento industriale del Nord-Est, legando le proprie fortune agli investimenti in quelle comunità di lavoro. E offre a quella tradizione, predisponendo una sofisticata, e attrattiva, machinery di regolazione propulsiva della produttività, l’occasione per affermarsi, con la nitidezza della sua visione strategica, sulle letture congiunturali e contabili, improntate alla sfiducia e alla paura, di analisti e di manager indifferenti al legame saldo e vivido che tiene insieme, nella sfida del riscatto, la storia e il futuro di una fra le terre a più alta condensazione di cultura produttiva di tutta l’Europa. In questa direzione, le prime dichiarazioni pubbliche dettate da Stoccolma sono prudenti, ma incoraggianti.
E, in ogni caso, la domanda che va posta con ruvidezza a quanti anche in queste ore accusano l’iniziativa di “attaccare i diritti conquistati con le lotte di decenni” è: esistono praticabili alternative? Forse che l’invocazione retorica e vile di impossibili misure di soccorso pubblico, secondo una linea neo-assistenziale che squarcia lo stesso profilo identitario del Nord-Est, lo è? O forse lo sono la jacquerie tumultuosa e distruttiva, la rivolta spartachista, tra l’altro estranee alla tradizione della stessa FIOM friulana, corruscamente antagonista ma giammai nichilista giacché consapevole che il presupposto del conflitto industriale è giustappunto la persistenza di una piattaforma produttiva che qui corre invece il rischio di inabissarsi in un’atrofizzata plaga neo-rurale?
Sotto questo profilo, che potremmo persino spingerci a definire culturale, se non addirittura antropologico, l’iniziativa di Confindustria è utile al fine di porre una volta per tutte la questione: come si declina il diritto al lavoro, scandito nella nostra Costituzione lungo il tragitto che dagli articoli 1 e 4 conduce, attraversando gli articoli 35 e 36, all’articolo 46, nel tempo della Grande Crisi? E, soprattutto, l’idea, ancora prevalente in molti settori della società italiana, secondo la quale la forma “storica”, assunta dalla regolazione (e dalla stessa rappresentazione) del lavoro per effetto di un lungo processo di evoluzione, di sedimentazione e di stratificazione, coincide con la sua forma “necessaria” e “(ideal-)tipica”, è ancora plausibile, o almeno praticabile? O non dobbiamo piuttosto avviarci di buona lena verso un assetto “bipartito”, in cui si affianchino una “piattaforma di garanzia”, costituita da un nucleo strutturale nitido e inviolabile di condizioni minime che rappresentano la sostanza stessa della nostra identità valoriale sul versante del lavoro, e una “sovrastruttura dinamica”, costituita dalle condizioni aggiuntive e integrative che vengono di volta in volta, ovvero area per area o azienda per azienda, regolate per via negoziale dalle parti sociali per organizzare in modo coerente e compatibile i rispettivi interessi nel contesto economico e competitivo di riferimento e generare i maggiori/migliori benefici?
Su quale sia la riposta giusta, i “saggi” di Pordenone non nutrono dubbi. E speriamo che, ritrovando il gusto della trattativa e dell’accordo, dell’innovazione e della determinazione, nelle prossime settimane le parti sociali e il Governo, attraverso nuove e generose relazioni industriali, impediscano che, dallo skyline industriale italiano, cupamente sparisca il segno antico e vero delle fabbriche di elettrodomestici. Una tradizione che reca i nomi di Zoppas e di Zanussi, di Borghi e di Nocivelli, di Merloni e di Fumagalli, non merita di cadere per accidia e arroganza.
Maurizio Castro
ADAPT Professional Fellow
@Castrotages