Professioni intellettuali tra autonomia e subordinazione: il caso degli avvocati degli studi associati

Bollettino ADAPT 9 dicembre 2024, n. 44
 
È noto come talune leggi istitutive di ordini professionali dispongano l’incompatibilità dell’esercizio della professione ordinistica con rapporti di lavoro subordinato.  Tale preclusione è stata spesso oggetto di critiche in ragione delle effettive condizioni di svolgimento di dette attività professionali da parte dei giovani professionisti. A ciò si aggiunga che la legge prevede una deroga ad hoc alla disciplina del lavoro etero-organizzato nel caso proprio delle “collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali” (art. 2, co. 2, lett. b, del d.lgs. n. 81/2015). Con sentenza 4 novembre 2024, n. 28274 la Corte di Cassazione si è pronunciata tanto sulla corretta qualificazione del rapporto di lavoro tra un avvocato e uno studio legale associato in ragione delle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa quanto sulla legittimità costituzionale sia delle previsioni sul regime di incompatibilità contenute nella legge della professione forense (art. 3, co. 3, R.D.L. 1578 del 1933 e art. 18, co.) che dell’art. 2, co. 2, d. lgs. n. 81/2015.
 
Nello specifico, la Cassazione ha confermato quanto accertato dalle corti territoriali, le quali avevano escluso che il rapporto di lavoro autonomo instaurato da una avvocata con uno studio legale associato e protrattosi per oltre 13 anni potesse dissimulare un rapporto di lavoro subordinato ex art. 2094 c.c., rigettando conseguentemente la domanda di riqualificazione della ricorrente. La Corte ha dunque ricordato i precedenti di legittimità in tema di qualificazione della attività resa dal professionista all’interno di uno studio associato, secondo i quali “la sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione all’intensità della etero-organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l’organizzazione sia limitata al coordinamento dell’attività del professionista con quello dello studio, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse dello stesso studio, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della sola assicurazione di prestazioni altrui (Cass. n. 5389 del 1994; n. 9894 del 2005; n. 3594 del 2011; n. 22634 del 2019)”. La Corte ha ricordato altresì come, secondo il proprio costante orientamento, nel caso delle professioni intellettuali, che, per loro natura, non sono soggette a ordini specifici o all’esercizio  del potere disciplinare, indici quali “la fissazione di un orario per lo svolgimento della prestazione o eventuali controlli sull’adempimento della stessa” non sono dirimenti ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro “se non si traducono nell’espressione del potere conformativo sul contenuto della prestazione proprio del datore di lavoro”. Al contrario, sono stati considerati dalla giurisprudenza di legittimità indici della natura subordinata del rapporto di lavoro avente ad oggetto prestazioni intellettuali l’obbligo di attenersi a una organizzazione in ordine ai turni di lavoro e alla fruizione delle ferie unilateralmente imposta da parte datoriale (Cass. n. 10043 del 2004; n. 22634 del 2019; n. 26558 del 2024).
 
Nel caso di specie, le corti territoriali hanno fondato la propria decisione su plurimi aspetti che, considerati complessivamente, hanno indotto a ritenere che, per l’intera durata del rapporto di lavoro, la ricorrente avesse svolto la propria professione “in modo libero, autonomo e indipendente, pur in presenza di regole necessarie al coordinamento della sua attività con quella dello Studio”. In particolare, gli elementi valorizzati dal giudice di merito attengono tanto al contenuto della prestazione lavorativa quanto all’organizzazione della stessa. Con riferimento al contenuto della attività professionale, il Giudice ha accertato che la ricorrente “nel confronto con lo Studio, assumeva iniziative personali ed esprimeva proprie considerazioni sule questioni tratte”, era “interpellata personalmente, e a volte anche esclusivamente, sia dai clienti e sia dai procuratori delle controparti” e che i pareri trasmessi ai colleghi erano sottoscritti unicamente da quest’ultima. Sotto il profilo organizzativo, a seguito della analisi del regolamento associativo, del sistema di gestione per la sicurezza delle informazioni  e del sistema di apertura delle pratiche, le corti territoriali hanno escluso che le misure adottate dai soci fossero finalizzate all’esercizio di un potere conformativo della prestazione lavorativa da parte dello Studio, essendo connesse esclusivamente a esigenze organizzative, dettate anche dalle grandi dimensioni dello Studio stesso, una associazione professionale composta da 50 soci e 296 professionisti, iscritti all’albo degli avvocati o a quello dei dottori commercialisti o al registro dei praticanti avvocati. Tale conclusione è avvalorata, secondo la Cassazione, anche dalla prevista applicazione di dette misure indistintamente a tutti i professionisti dello Studio, inclusi i soci.
 
Secondo le corti di merito rispondeva a esigenze di coordinamento anche il sistema di acquisizione e ridistribuzione tra i professionisti degli incarichi di difesa e assistenza legale da parte dello Studio, che intratteneva in via esclusiva il rapporto contrattuale con i clienti ed emetteva le fatture. Anche l’obbligo di esclusiva (o condizione di monocommittenza), che impediva a tutti i professionisti di avere una propria clientela collaterale a quella dello Studio, rispondeva alla esigenza di escludere conflitti di interessi e dunque di coordinamento tra le parti. Tuttavia, tale condizione limitativa, secondo la Cassazione, era controbilanciata da alcuni vantaggi, dal momento che la proposta, da parte del professionista, di un nuovo cliente allo Studio comportava un riconoscimento economico, oltre alle agevolazioni derivanti, ad esempio, dalla possibilità di utilizzare le risorse dello Studio (quali locali, strumenti informatici, dipendenti). Quanto ai profili temporali, il Giudice dà conto di come le tempistiche per lo svolgimento della prestazione lavorativa fossero dettate esclusivamente dalle scadenze tipiche della professione (es. termini processuali) o da specifiche richieste dei clienti (es. urgenze durante i periodi festivi), e non imposte unilateralmente dallo Studio. Allo stesso modo, l’utilizzo di un badge quale chiave di accesso allo studio, la compilazione di un time sheet e la predisposizione del piano ferie non erano finalizzati a permettere a terzi dello Studio di effettuare un controllo sulla prestazione lavorativa ma solo a “consentire a tutti di sapere chi fosse presente in studio e chi no in una certa data”. Infine, anche la corresponsione di un compenso fisso non è da considerarsi per la Corte un indice sufficiente della subordinazione anche in ragione del fatto che ad esso si aggiungeva la partecipazione a quanto ricavato dalle pratiche relative ai clienti procurati dal professionista.
 
Sebbene, secondo la Cassazione, il rigetto della domanda della ricorrente per l’accertata natura autonoma del rapporto di lavoro renda irrilevante la questione di legittimità costituzionale sul regime di incompatibilità con il lavoro subordinato previsto dalla legge sulla professione forense, la sentenza si sofferma anche su tale aspetto, ricordando come la Corte Costituzionale abbia già accertato la legittimità della previsione in quanto ispirata dal “principio di ordine sistematico della irrinunciabilità delle garanzie di autonomia e indipendenza dell’avvocato, a tutela sia del corretto esercizio della professione nei confronti del cliente  sia del ruolo insostituibile al medesimo spettante per la tutela dei diritti fondamentali e, in ultima analisi, per la garanzia dello stato diritto nel suo complesso (v. Corte Cost. n. 18 del 2022, n. 4.4.2. del Considerato in diritto)”.
 
Allo stesso modo, il Giudice, pur ritenendola irrilevante, si pronuncia sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla ricorrente sia con riferimento all’art. 61, co. 3, del d. lgs. n. 276/2003, applicabile alla porzione del rapporto di lavoro svoltosi sotto la sua vigenza, che prevedeva l’esclusione delle professioni ordinistiche dalla presunzione di subordinazione nel caso di rapporti di collaborazione privi di un progetto specifico, sia rispetto all’art. 2, co. 2, d. lgs. n. 81/2015, che, come si è detto, esclude l’applicabilità della disciplina del lavoro subordinato al rapporto di collaborazione etero-organizzato nel caso in cui l’attività lavorativa oggetto della collaborazione è svolta nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali. Con riferimento alla prima delle due previsioni, il Giudice chiarisce che la questione non può essere posta in quanto nel caso di specie, ovvero nel caso della professione ordinistica, difetterebbe non solo il progetto ma anche tutti gli altri elementi della fattispecie normativa invocata poiché non conciliabili con l’attività professionale svolta, caratterizzata da autonomia e indipendenza.
 
Quanto alla deroga alla disciplina sulle collaborazioni organizzate dal committente, la Cassazione ritiene manifestatamente infondata la questione di costituzionalità sollevata, poiché, come era stato ipotizzato originariamente da parte della dottrina e poi confermato dalla giurisprudenza sul punto, il principio della indisponibilità del tipo contrattuale, invocato in questo caso e in base al quale non è possibile negare la disciplina del lavoro subordinato a rapporti che, pur formalmente autonomi, si atteggiano come tali, “opera rispetto a rapporti ontologicamente di natura subordinata”; mentre, nel caso dell’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 si è in presenza di rapporti di lavoro etero-organizzati, dunque, un tipo di collaborazione “morfologicamente contigua al lavoro subordinato” (così la relazione illustrativa al d. lgs. 81/2015, richiamata dalla sentenza in commento) ma “riconducibili a forme di lavoro autonomo” cui il Legislatore ha voluto estendere, in via rimediale, una disciplina di maggior tutela del prestatore quale risulta essere quella riconosciuta al lavoratore subordinato. La deroga disposta alla lett. b del comma 2 dell’art. 2, dunque, per il Giudice, si spiegherebbe in ragione “del possesso da parte del professionista di un potere contrattuale che lo rende immune dalle pratiche elusive e di sfruttamento cui il legislatore ha voluto porre rimedio”. Parimenti è infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione per contrasto al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., posto che, secondo la Cassazione, “l’esclusione dal comma 1 interessa figure rientranti nel campo delle professioni ‘protette’, facenti capo ad un ordine professionale, quindi una categoria disomogenea rispetto a quelle prive di un simile statuto professionale (…)”. La Corte, infine, esclude che la citata disposizione possa essere in contrasto con gli artt. 4 e 35 Cost., che sanciscono il diritto al lavoro, per il solo dato della dipendenza economica derivante dalla monocommittenza, mentre non si sofferma (ma comunque ne esclude la ricevibilità) sull’invocato contrasto della disposizione con l’art. 117 Cost. o con il diritto dell’Unione Europea.
 
Federica Capponi

Assegnista di ricerca Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia – ADAPT Senior Fellow

@FedericaCapponi

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