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Bollettino ADAPT 5 giugno 2023, n. 21
È giunto alla sua seconda edizione il “Public Employment and Management 2023”, il rapporto realizzato dall’OCSE, che fornisce una panoramica degli ultimi dati e trend relativi alla gestione della forza-lavoro nella pubblica amministrazione. I cinque capitoli, in cui il documento si articola, approfondiscono il tema della flessibilità dalle diverse angolazioni della mobilità strategica, dell’apprendimento e lo sviluppo, e delle modalità di lavoro flessibili, in virtù del ruolo cruciale che ciascuna di queste componenti ha assunto durante la pandemia da Covid-19, contribuendo alla resilienza del sistema pubblico.
Il primo capitolo, in particolare, pone l’accento sull’importanza di incorporare la flessibilità nei servizi pubblici attraverso un uso strategico della mobilità, che consenta anche di allineare le competenze e le capacità dei dipendenti alle sfide politiche sempre più complesse e che richiedono un approccio multidisciplinare. Sono quindi necessari meccanismi in grado di identificare rapidamente le skills richieste, per trasferirle verso aree prioritarie. Al tempo stesso, peraltro, occorre superare le barriere tradizionali alla mobilità e garantire una maggiore integrazione delle relative strategie con i percorsi di carriera.
Il documento prosegue con una riflessione sull’opportunità di favorire la flessibilità attraverso l’apprendimento e lo sviluppo. In un mondo del lavoro in costante evoluzione, è fondamentale offrire strumenti formativi diversificati per garantire che i dipendenti pubblici stiano al passo con i cambiamenti in atto. A questo fine, occorre costruire una “cultura dell’apprendimento”, che valorizzi e incentivi il continuo sviluppo delle competenze, attraverso la promozione sistematica e strategica di forme di apprendimento formale e informale – integrate nelle modalità di lavoro quotidiane – e il coinvolgimento attivo dei dirigenti nelle opportunità di formazione.
Il terzo capitolo si concentra sulle modalità di lavoro flessibili nella pubblica amministrazione, andando oltre il tradizionale binario casa/ufficio. L’adozione di pratiche, che consentano ai dipendenti di adattare orari e luoghi di lavoro alle loro esigenze, permette di migliorare il servizio pubblico e attrarre talenti desiderosi di carriere appaganti. Tuttavia, la fiducia reciproca tra i manager e il personale e la raccolta e l’utilizzo efficace dei dati sono indispensabili per gestire le diverse preferenze e sviluppare un approccio coerente nell’implementazione delle soluzioni flessibili.
Il rapporto è, infine, completato da una sintesi dell’analisi OCSE sul servizio pubblico federale brasiliano e da alcuni casi di studio (Belgio, Corea, Regno Unito e Slovenia) sulle pratiche di lavoro flessibile.
Con riferimento a quest’ultimo profilo, il documento si concentra sulle forme di flessibilità che incidono su spazio e tempo di lavoro, evidenziando le potenzialità ed i limiti delle politiche sviluppate nei singoli Paesi.
Ciò che si osserva, in primo luogo, è l’eterogeneità delle soluzioni adottate. Mentre sul piano della flessibilità spaziale, seppur con espressioni diverse (quali “lavoro ibrido”, “flessibile”, “da casa”, “casa-ufficio”), lo strumento cui si ricorre è sempre quello del lavoro da remoto, le modalità con cui i Paesi OCSE declinano, invece, il tempo di lavoro risultano molteplici, spaziando dalla flessibilità oraria in senso stretto – in cui, fermo restando un orario settimanale fisso, il dipendente è libero di distribuire il tempo di lavoro come ritiene più opportuno – al ricorso al lavoro a tempo parziale, passando per la settimana “corta” e l’orario di lavoro orientato al risultato (cd. “trust based”).
Sebbene alcuni strumenti fossero già previsti in passato, inoltre, la pandemia ha agito da catalizzatore per la loro diffusione e ne ha allargato la portata. Con particolare riferimento al lavoro da remoto, l’uso massiccio dello strumento – solo nella prima ondata, secondo il rapporto, questa modalità flessibile ha interessato oltre il 60% del personale delle amministrazioni centrali/federali in 2/3 dei paesi OCSE – ne ha fatto emergere potenzialità e limiti.
Posto infatti che non tutte le attività sono per loro natura “remotizzabili” (nei settori dell’agricoltura, delle costruzioni e delle attività estrattive, ad esempio, meno del 20% dei lavori si presta a tale modalità), si osserva che anche quelle che presentano in astratto questa caratteristica, spesso non sono comunque rese da remoto, per via di policies aziendali e aspettative implicite dei datori di lavoro legate alla presenza in ufficio dei loro dipendenti.
A livelli maggiori di produttività e di soddisfazione dei lavoratori, inoltre, fanno spesso da contraltare minori interazioni tra colleghi all’interno dell’ambiente di lavoro, orari nel complesso più lunghi e costi per le utenze domestiche più elevati. Al tempo stesso, peraltro, sembrerebbero migliorati, per un verso, il rapporto tra manager e dipendenti, ora improntato ad una maggiore fiducia, – anche per via dell’impossibilità di monitorare l’attività da remoto al pari di quella resa in presenza – e, per altro verso, l’immagine della pubblica amministrazione, che nell’offrire modalità di lavoro flessibili, aumenta la sua capacità di conservare e attrarre talenti.
Quanto poi alla diffusione dei singoli strumenti, dai dati emerge come, rispetto al lavoro da remoto, le pubbliche amministrazioni abbiano messo in atto meno misure di flessibilità oraria durante la pandemia (sebbene i dati non tengano conto degli accordi informali volti adattare l’orario all’esigenze di cura familiare durante il lockdown), prediligendo in ogni caso, fra quelli relativi all’orario di lavoro, strumenti di lunga data come il part-time (il 94% paesi OCSE lo prevede e il 44% lo ammette per tutti i dipendenti pubblici), in luogo di altri di più recente introduzione, come la settimana lavorativa compressa e l’orario di lavoro trust–based, che rimangono i meno utilizzati – ancorché in via di sperimentazione in alcuni Paesi (es. Francia) – e spesso coprono solo una quantità limitata di dipendenti pubblici.
Quella che si va affermando, con la fine dell’emergenza epidemiologica, è dunque una “nuova normalità”, caratterizzata da una crescente personalizzazione delle modalità di lavoro ed una maggiore flessibilità dei relativi tempi e luoghi.
Sul piano della disciplina, i vari Paesi mostrano soluzioni ancora una volta diversificate: alcuni fondano la regolazione del lavoro flessibile, tanto nel pubblico che nel settore privato, sulla contrattazione collettiva, altri sulla fonte legale. È frequente il ricorso a codici di condotta o documenti, per la previsione di protocolli di sicurezza per la gestione dei dati e di regole sul diritto alla “disconnessione”. Nei Paesi in cui è consentito, peraltro, l’accesso a modalità di lavoro flessibile costituisce solo una facoltà del lavoratore (per cui spesso non si prevede neppure un obbligo di motivazione per il caso di diniego del datore di lavoro) e non un suo diritto (fanno eccezione, ma solo per determinate categorie di prestatori di lavoro, Italia, Corea e Slovenia).
La sempre maggiore flessibilità negli spazi e nei tempi di lavoro induce, infine, le pubbliche amministrazioni a ripensare l’uso degli uffici: il 59% dei Paesi OCSE sta sviluppando in proposito appositi piani di “adattamento” a queste nuove modalità di lavoro, attraverso la creazione di spazi flessibili o condivisi tra dipartimenti o organizzazioni. Ancora pochi Stati prevedono, invece, di ridurre gli uffici (27%) o di ricollocarli in altre parti del Paese (11%), sebbene il trasferimento da capitali costose verso centri urbani più economici, oltre a consentire l’erogazione di servizi di prossimità, possa offrire opportunità di attrarre talenti fuori dalle capitali e determinare maggiori risparmi sul bilancio operativo.
Francesca Di Gioia
Scuola di Dottorato di ricerca in Apprendimento ed Innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena