Quale America? (pensieri frettolosi di un diario semestrale)

Da quando la tempesta di neve Jonas ha imperversato su parte del mid-west USA, conquistando le scalette dei tg italiani e facendomi ricevere un sacco di messaggi del tipo “ma c’è la bufera di neve anche da te in Iowa?”, continuo a pensare che l’italiano medio non abbia la più pallida idea di un fatto molto semplice: L’”America”, quella stelle e strisce, non è una sola. E no, una tempesta di neve che investe Washington, non significa neve in Iowa. Certo una mattina ci siamo svegliati invasi dal fumo dell’incendio dell’Alberta, regione del Canada a 2200 km di distanza, sulla rotta dei venti che portano il gelo da -40°centigradi nella cosiddetta “campagna d’America”. Ma quella è un’altra faccenda.

 

Se dovessi scegliere una sola parola che possa riassumere la differenza fondamentale tra Europa e Stati Uniti, sceglierei “size”. A volte ci dimentichiamo che gli Stati Uniti sono 50. Li abbiamo sentiti nominare praticamente tutti almeno una volta. Io, di mio, di nuovo ho scoperto solo l“Idaho”, dimenticato dagli americani stessi, con tutte quelle belle montagne! Con la stessa distanza coperta andando da San Francisco e New York si andrebbe da Lisbona al confine tra Turchia e Iran. Il Texas è uno Stato più grande della Francia, la più estesa nazione dell’Europa occidentale. Una volta avevo voglia di mare. Mi hanno detto che dovevo guidare almeno 19 ore per raggiungere la costa più vicina. Altre volte, ovvero quasi sempre, avevo voglia di montagne. Quelle sono più vicine: solo 13 ore. A dispetto di cosa dica il frizzante TV commercial della T-Mobile, zone dove il telefono non prende una tacca, non di 4g LTE ma di viterbianissimo GSM, ce ne sono eccome. Provare 1396 Paint Creek Dr Waterville, IA 52170, per credere, se proprio.
Le parole “dimensione”, “spazio”, “distanza” dicono molto di questa Nazione, di come e perché il resto del mondo per un americano sia, in sostanza, ristretto. Viene bene, credo, che un miglio contenga 1,7 kilometri, un gallone 3,7 litri, un oncia 28 grammi. La small size americana è quasi sempre equivalente a una large europea. Alla prima visita colpiscono la dimensioni. Delle carreggiate, delle vetture, dei piatti, dei bicchieri, dei bidoni di latte, dallo spessore della carne, dalla metratura delle bandiere sparse ovunque.

 

 

L’immaginario che equipara “americano” a “esagerato”, dal punto di vista europeo regge. Per il resto gli Stati Uniti paiono una nazione di contraddizioni, di opposti che sembrano reggersi a vicenda. E qui molto spesso l’immaginario fallisce. La rappresentazione della grande città statunitense non è di certo una buona esemplificazione dell’”America” reale. Dall’osservatorio di una piccola college city dell’Iowa, la cosa è evidente. D’altronde negli Stati Uniti vivono 318 milioni di persone. Le città sopra il milione di abitanti sono 10. Anche sommando tutti i loro abitanti, si arriva a 25,9 milioni. Restano più di 290 milioni di persone che vivono in città di medie o piccole dimensioni, magari sparse in agglomerati dalla distribuzione comunque difficile da immaginare. Pensiamo all’America dell’avanguardia tecnologica, di Oculus, di internet sugli aerei. Cardboard l’ho provato anche io, e anche internet in volo. Otto dollari giusto per poter scrivere: “questa foto viene da un aereo in volo”. Poi però nei pub della città trovi la gente che gioca ancora a Nintendo 8 bit, e, fuori da ogni intenzionalità cult, nella sala “Arcade” dell’aeroporto trovi un Pacman prima versione perfettamente funzionante, da venerazione museale. Cercando su Skyscanner un volo economico per Chicago non immagineresti di infilarti in un aereo con una sola elica e 7 posti, dove il Pilota fa anche da manutentore e da Stuart. Al check-in non verificano solo il peso della tua valigia, ma anche il tuo! Roba da lista nera. In posti come questi, alle luminarie di Broadway corrisponde l’omino che sostituisce a mano le lettere dell’insegna del teatro. L’ultima volta che ho visto una cosa del genere era in “Polvere di Stelle” con Alberto Sordi e Monica Vitti. Dimenticatevi Uber e Lyft, almeno per un momento. In posti come questi il trasporto pubblico locale è rappresentato da un autobus l’ora, che connette i quartieri abitati con la down town, distante altrimenti un’ora a piedi. I locals, nativi e ben istruiti, manco sanno dell’esistenza di quella linea, popolata in effetti da una variopinta umanità evidentemente low income. Solo qui vedi americani neri. Vivono praticamente tutti in una specie di ghetto a 15 km dall’Università.
La gente “d’America” può vivere anche in comunità dove l’American Dream si riduce alla scelta tra diventare contry boy o red neck. I primi, mettiamola così, sono una versione un po’ più gentleman dei secondi. Al supermercato si sostituisce una fattoria Amish e d’altronde la corrente se ne va quando c’è troppo vento, non è che sia una grande tentazione. Qui, mentre gli studenti sono a festeggiare lo spring break sulle spiaggie del Golfo del Messico, nevica.
Ma non c’è bisogno di andare agli estremi per trovare gli estremi. Anche a San Francisco in un pub puoi giocare a Sonic su un Sega Master System e il barbiere latinos economico che ho scelto fidandomi di Google non accettava la carta di credito.
Talvolta, vale anche poco basarsi sullo stereotipo moralista. Diciamo degli sprechi e degli eccessi di un America che abbiamo negli occhi e nei film, ma l’acqua gratis sempre e ovunque (certo, una libbra di ghiaccio anche a -30°celsius) e la domanda d’obbligo “do you need a box?” per portarti via gli avanzi, sono segni di una civiltà minima che noi ancora ci sogniamo. A colazione ti offrono fried pork chops con ketchup e gravy sauce, ma nel banco carne del supermercato (aperto anche qui 24/7 senza malumori di sorta) la carne è divisa per percentuali di grassi contenuti.
Politicamente conosciamo l’astensionismo altissimo, ma in Iowa quando chiedi a un cittadino per chi voterà è probabile che ti rispondano qualcosa come “Non lo so, non li ho ancora incontrati tutti”. Le comunità sono di un civic-mind radicale e vanno fiere del metodo dei caucus, assemblee di elettori che noi definiamo “primarie” ma che, come dice Gianni Riotta, assomigliano veramente a assemblee di condominio. In sostanza ci si convince a cambiare fazione con comizi dal tenore con cui si sosterrebbe animatamente la tesi del “qualcuno non rispetta mai il suo turno di pulizia delle scale!”.

 

Quando sono andato a vederle potevo alzare la mano anche io e votare, mandando in confusione il conteggio. Ma d’altra parte qui se trovano un quarto di dollaro incastrato nel tavolo da biliardo lo riportano alla cassa dicendo “l’ho trovato, non è mio”; chi mai avrebbe il gusto del dispetto di una mano alzata senza essersi registrato? Un italiano, of course.
L’americano della piccola media città che ho conosciuto io è oltremodo accogliente e generoso sopra i 40 anni. Sotto ragiona col paradigma del BYO: brign your own food, bring you own booze… Però poi trovi in un pub chi ti offre un bloody mary solo perché gli spieghi che non lo hai mai bevuto, o uno che ti invita a cena dopo averti conosciuto 5 minuti, solo perché gli dici che sei straniero.
Politicamente conosciamo l’alto astensionismo, ma un socialista di 74 anni si aggira per tutti gli Stati facendo impazzire i giovani, più di quanto facesse Obama, nei manuali per questo, nel 2008.  Sappiamo del suo tendenziale liberismo, ma d’altro canto la disoccupazione è pur sempre al 5%. Certo le disparità economiche sono impressionanti, ovunque. Per questo tutti parlano dei salari, non della stabilità del lavoro. Perché un lavoro lo si trova. La scritta “Now Hiring” è letteralmente dappertutto. Ad ogni vetrina. Dice Sanders non che la gente è precaria, ma che il lavoro è povero, che le persone devono farne due o tre per sopravvivere. Allora capisci perchè ti guarderanno male, molto male, se non lasci una mancia (ma succede anche a Napoli!).
Non viene in mente nemmeno al più critico dei politici, nemmeno al più autocritico dei cittadini, di mettere in dubbio la grandezza americana. L’American Pride è cosa che non rinnegherebbe nemmeno il più Sanders dei Sanders. E noi ci arrabattiamo ancora nell’argomentare che sono nani sulle spalle dei giganti, che non hanno una storia. Noi invece ce l’abbiamo eccome. Solo che mediamente non abbiamo il benché minimo orgoglio. E allora, meglio un orgoglio senza storia o una storia senza orgoglio?
In realtà una storia gli Stati Uniti ce l’hanno. Una storia fondamentalmente di immigrazione. E quando guardi la mappa di una grande città e cammini per i quartieri capisci che la domanda è in fondo: ma un americano chi è? Messicani, giapponesi, greci, polacchi, arabi, italiani, anglosassoni, tedeschi, russi, cinesi, ora siriani, e gli americani? Americani chi? Una sera attorno a un fuoco (in città) scaldandoci s’mores (ricetta col tipico marsh mellow sul bastoncino) un ragazzo sui trentacinque, insegnante in una High school, molto apassionatamente sosteneva che essere americani è avere un’idea americana. Quale che sia la forma, la sfumatura, l’inclinazione politica che prenda, per me questa idea è un’idea individualista. Per il sogno americano questa idea è l’idea che la persona, se vuole può. Può farcela. Ad una festa di diploma l’altro giorno campeggiava la classica scritta “she believe she could, so she did”. E’ tutto nelle tue mani, se fallisci, sei praticamente solo. Molti americani non ce la fanno e per loro la via della dignità diventa al massimo qualcosa come vendere giornali free press nelle vie del passeggio benestante.

 

 

Ma questo individualismo è individualismo anche in senso nobile, dove la persona viene prima di qualsiasi pregiudizio. Chiudendo il suo bel documentario sulla propaganda dell’Isis e le storpiature informative dell’Islam, Fred Zakaria diceva: “In America, of all places, people should be treated as individuals and not as stereotypes from a racial, ethnic or religious group. […] If America is about anything, it is the idea that people should be judged as individuals with individual liberties and rights. It is what [terrorists] hate about us. We might as well live up to our own ideals”. Di certo l’America non è una. Forse più che altro è “uno”.

 

 

Francesco Nespoli

@FranzNespoli

ADAPT Research Fellow

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Quale America? (pensieri frettolosi di un diario semestrale)
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