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Il giorno dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Decreto dignità è stato anche il giorno della consueta diffusione mensile, da parte dell’Istat, dei dati sull’occupazione. Ed è utile partire proprio da questi dati per provare a fornire qualche elemento in merito al contesto in cui il decreto si troverà ad avere effetto. L’alternativa è uno scontro tra diverse posizioni ideologiche che poco aiuta a risolvere i nodi critici del mercato del lavoro italiano, che sono e restano molti. Tra i dati che più interessano troviamo quello sulle tipologie di occupati, suddivise in occupati permanenti, occupati a termine e lavoratori indipendenti. Tra maggio 2017 e maggio 2018 in Italia abbiamo avuto 457mila occupati in più, una cifra non da poco, suddivisa però in 5mila permanenti, 434mila a termine e 19mila indipendenti. In poche parole il 95% dei nuovi occupati ha una occupazione temporanea. Si tratta di un dato relativo agli ultimi 12 mesi ma che riflette un trend che prosegue ormai da qualche anno e che ha portato l’Italia prima ad avvicinarsi alla media europea dei lavoratori a termine e, recentemente, a superarla.
Ma è importante non fermarsi nell’analisi al solo numero degli occupati a termine ma approfondire anche la durata effettiva dei loro contratti. Infatti sappiamo che il numero dei contratti non coincide con il numero degli occupati, in quanto un singolo lavoratore potrebbe essere soggetto di più attivazioni nel corso di un anno. A questo riguardo i dati del Ministero del Lavoro mostrano come nel corso del periodo 2015-2017 siano cresciuti i contratti di durata da 1 a 30 giorni (da 889mila nel 2015 a 919mila nel 2017), così come quelli di durata tra i 31 e i 90 giorni e quelli tra i 91 e i 365 giorni (sebbene in misura inferiore). Al contrario sono diminuiti, da 538mila a 492mila, i contratti con durata effettiva maggiore sopra i 366 giorni.
Vediamo dunque come non tutto il lavoro temporaneo sia uguale, e come ci possano essere criteri che ci aiutano a distinguere cosa sia “precario” e cosa meno. Al contrario il decreto sembra accettare l’equazione precariato-temporaneità facendo di tutta l’erba un fascio per poi andare a colpire nei suoi effetti (che pur rischiano di essere poco efficaci, come mostrato in una nuova pubblicazione ADAPT) i contratti con durata superiore ai 12 mesi, che spesso non hanno le caratteristiche del nemico che si vuole affrontare, caratterizzato da breve durata.
Questi dati aiutano a comprendere la portata del fenomeno, che mostra un cambiamento che potremmo definire epocale relativamente ai trend del mercato del lavoro italiano, e rendono difficile pensare che siamo di fronte solo ad un cortocircuito normativo. Sembra esserci qualcosa di più che possiamo ritrovare nei cambiamenti dei sistemi produttivi, sempre più esposti a mercati volatili e a consumatori esigenti, il tutto rendendo necessari livelli di flessibilità diversi da quelli del passato. Così come in lavoratori che sempre più sposano carriere discontinue nelle quali il concetto stesso di stabilità è dinamico, senza che questo diventi un paradosso. Gli interventi necessari sarebbero quindi quelli che vanno ad incidere in questa complessa trama di transizioni che se da un lato può consentire maggior autonomia ai lavoratori e alle imprese, dall’altro può lasciare indietro molte persone, complice anche la spinta dell’innovazione tecnologica. E questi interventi sono quelli in materia di mercato del lavoro che vanno da un ripensamento delle mai attivate politiche attive, al rinnovamento dei sistemi di welfare anche ampliando e se necessario ripensando le forme di sostegno attivo al reddito, politiche per favorire la formazione e la riqualificazione dei lavoratori e politiche dell’istruzione che siano al passo con i tempi. Interventi che richiedono una visione del cambiamento e del futuro più che qualche piccola modifica normativa.
Direttore Fondazione ADAPT
*pubblicato anche su ll Sole 24 Ore, 3 luglio 2018