Concessioni ai magistrati su incompatibilità e pensioni. Tre colpi buoni ai sindacati (distacchi e altro). La trattativa con il Quirinale (e relativi aggiustamenti). Ecco che cosa funziona e cosa meno nella riforma Madia.
Vista anche l’attualità dell’immagine, la domanda è semplice: ma questo famoso pacchetto sulla Pubblica amministrazione, questa “grande” e “straordinaria” riforma approvata dal governo dodici giorni fa e firmata finalmente dal presidente della Repubblica (martedì, durante Italia-Uruguay) e alla fine pubblicata in Gazzetta ufficiale (nella notte di martedì), fino a che punto morde la burocrazia, fino a che punto aggredisce le incrostazioni del settore pubblico e fino a che punto coincide con quel progetto di grande riforma annunciato dal presidente del Consiglio all’inizio del suo mandato? A una prima analisi la valutazione complessiva raggiunge la sufficienza: su alcuni passaggi il governo ha lanciato un guanto di sfida alla magistratura, ai sindacati, ad alcuni pezzi di macchina ‘ statale (vedremo quali), e sentire dire dal presidente della Corte dei Conti, Raffaele Squitieri, intervistato ieri dal Messaggero, che il senso della riforma Madia è che rappresenta “una sostanziale rottamazione”, fa oggettivamente un certo effetto. Su altri punti invece il governo è stato costretto, o meglio, ha deciso di fare qualche passo indietro, di non giocare troppo con il bisturi, di non esagerare con le spallate e di confermare una scelta tutto sommato discutibile, simile a quella portata avanti attraverso il Jobs Act: inserire il grosso della riforma, la ciccia, il succo del progetto, non in un decreto ma in un più tortuoso e lungo disegno di legge delega. Da questo punto di vista ha ragione il presidente della Corte dei Conti: i due decreti rappresentano una rivoluzione più di metodo che di progetto, e l’espressione migliore per circoscrivere il senso della riforma è proprio usata da Squitieri: rottamare. Ma per rivoltare la Pubblica amministrazione come un calzino siamo sicuri che la rottamazione sia sufficiente? E che dietro la rottamazione non si nasconda qualche mediazione di troppo? Vediamo punto per punto.
Magistrati. Quella con la magistratura è stata una delle partite più delicate giocate sui capitoli della riforma. In un primo momento l’idea del governo era quella di introdurre due principi tosti, letali: incompatibilità totale tra il ruolo di magistrato e un incarico pubblico e pensione immediata per tutti i dipendenti pubblici (compresi dunque i magistrati) che avessero raggiunto i 70 anni. Passo dopo passo, le norme sono state alleggerite e il risultato è che l’incompatibilità non è più totale (sarà sufficiente essere fuori ruolo) e che i magistrati over 70 in ruoli apicali (magistrati ordinari, amministrativi e contabili in “funzioni direttive o semidirettive” o incarichi dirigenziali) potranno restare in servizio fino al 31 dicembre 2015 (per tutti i dirigenti pubblici in pensione, invece, magistrati compresi, sarà possibile accettare una carica solo a titolo gratuito). La condizione di essere “solo” fuori ruolo è un passo indietro rispetto all’idea di doversi dimettere dalla magistratura, ma una differenza con il passato esiste: fino a oggi, infatti, a un magistrato, per accettare un incarico pubblico, bastava mettersi in aspettativa (giochino tecnico grazie al quale era possibile maturare anni di anzianità anche stando lontano dalla magistratura: vedi il caso di un Filippo Patroni Griffi, consigliere di stato, che dopo aver passato molti anni nei ministeri ha maturato un’anzianità tale da essere stato promosso a presidente di sezione del Consiglio di stato). Non appella il decreto sarà convertito in legge, il gioco non sarà più possibile. Questo però non toglie che rinviare al 31 dicembre 2015 l’uscita dei magistrati over 70 costituisce un privilegio non da poco. La norma, così si dice, è stata introdotta per “salvaguardare la funzionalità degli uffici giudiziari e per evitare che gli uffici direttivi degli organi della magistratura o dei tribunali si ritrovassero con sedi vacanti”. Ma per tutti gli altri casi della Pubblica amministrazione il limite è al 31 ottobre 2014. Il presidente della Corte dei Conti, dunque, ha ragione a dire che la riforma contiene i geni della rottamazione e ha ragione a ricordare che nella sola Corte dei Conti su 400 magistrati i rottamati sarebbero circa 100. Tutto questo è vero. Ma è anche vero che mai come in questo caso la rottamazione è annunciata, e chissà poi cosa succederà il 31 dicembre 2015.
Sindacati. La partita con i sindacati si può dire sia finita tre a uno per il governo. I gol coincidono con alcuni risultati raggiunti da Renzi, e che hanno un peso indiscutibile. Il primo riguarda il famoso taglio del 50 per cento ai permessi sindacali. Ogni giorno, come è noto, ci sono 4.000 dipendenti pubblici in permesso sindacale retribuito e il governo (dal primo settembre 2014, non più dal primo agosto) ha scelto di dimezzare il monte ore del 50 per cento per risparmiare circa 115 milioni di euro all’anno. Il taglio ha superato l’esame del Quirinale. Così come l’esame l’ha superato un altro provvedimento importante: la riduzione del 50 per cento dei distacchi sindacali, ovvero dei dipendenti pubblici ai quali è concesso lavorare all’interno dei sindacati pur conservando lo stipendio pubblico. Secondo i calcoli del governo, il dimezzamento di tutti i distacchi (che in totale sono circa 2.800) determinerebbe il ritorno in servizio, a partire dal primo settembre 2014, di 1.400 dipendenti. Il terzo gol segnato dal governo (che però sarà convalidato solo dopo un’accurata visione con la moviola in campo) è legato al capitolo mobilità. Il decreto prevede la possibilità di spostare, “senza assenso”, da un posto di lavoro a un altro i dipendenti pubblici purché lo spostamento avvenga nell’arco di 50 chilometri dalla sede originaria. Norma sacrosanta che nasconde però un problema non da poco: spostare sarà possibile, d’accordo, ma il decreto non specifica chi sarà l’organo deputato a decidere gli spostamenti, e dunque, per capire se vittoria sarà per il governo, occorrerà aspettare davvero il responso della moviola. E il gol del sindacato? Uno. O meglio uno e mezzo. Il gol vero è relativo a una promessa strappata al governo: ok i tagli, ok la mazzata ai privilegi, ma in cambio prometteteci che non toccherete i 600 milioni di euro destinati ogni anno dallo stato ai patronati e ai Caf. Promessa accordata. L’altro mezzo gol ottenuto dal sindacato anche questo andrà convalidato dopo attenta visione alla moviola è stato quello di aver ottenuto dal governo l’inserimento delle norme più toste per i lavoratori anche a livello di salario, vedi il capitolo sul ruolo unico della dirigenza non nel decreto ma nel disegno di legge. Così come, ammettono a Palazzo Chigi, al sindacato è stato promesso che verrà inserito nel disegno di legge delega la riapertura della contrattazione normativa (vecchio pallino della Cgil). Ma i disegni di legge delega, è noto, si sa come nascono ma non si sa mai come finiscono.
Il rinvio e il Quirinale. Chi dice che tra la presidenza della Repubblica e la presidenza del Consiglio non c’è stato alcun tipo di attrito rispetto al capitolo della Pa non dice il vero. Gli attriti e le differenze di vedute ci sono stati. E’ merito del Quirinale se i magistrati hanno ottenuto qualche deroga (e la richiesta di non rendere incompatibile il ruolo di magistrato con quello di funzionario di stato ha trovato un sponsor al Quirinale nella figura di Donato Marra, segretario generale della presidenza della Repubblica e consigliere di stato, che sarebbe risultato incompatibile nel caso tale norma fosse stata approvata integralmente). Ed è per lavorio del Quirinale se i diritti annuali che le imprese pagano alle Camere di commercio sono stati tagliati del 50 per cento e non del 100 per cento, come Renzi avrebbe voluto in un primo momento. Ed è merito del Quirinale anche lo spezzettamento del decreto (il decreto licenziato il 13 giugno scorso è stato spacchettato in due distinti provvedimenti, da un lato Pubblica amministrazione e semplificazioni e dall’altro crescita) e la scelta di confermare il grosso della riforma, per evitare di scavalcare in modo eccessivo il Parlamento, non nel decreto ma nel disegno di legge delega. In questo quadro, ciò che può essere rimproverato al governo è non aver avuto il coraggio di puntare su alcuni provvedimenti che avrebbero potuto dare un segno diverso alla riforma (nessuna notizia sulla riconfigurazione complessiva della Ragioneria di stato; nessuna notizia sull’abrogazione delle funzioni giurisdizionali del Consiglio di stato; nessuna notizia sulla riforma complessiva della Corte dei Conti e sulla possibilità di abrogare il controllo preventivo di legittimità che la Corte ha sugli atti della Pubblica amministrazione; nessuna notizia sulla riforma della Giustizia contabile) e non aver avuto il coraggio di inserire nel decreto ma solo nel disegno di legge delega un punto chiave: il ruolo unico della dirigenza. Ovvero sia la fine della divisione in due delle categorie della Pubblica amministrazione (prima fascia e seconda fascia) e l’avvento del ruolo unico (in sostanza significa che non ci saranno più promozioni legate all’anzianità ma che tutti i dipendenti avranno un unico contratto, con stipendio fisso, e con la parte variabile che sarà legata agli incarichi dirigenziali che verranno assegnati di volta in volta a tempo determinato). Al momento, così risulta al Foglio, il disegno di legge non è ancora stato scritto e ci vorrà del tempo. Il timing del governo è quello di convertire in legge il decreto entro Ferragosto, di approvare tra settembre e dicembre la legge delega e di partire da gennaio con i decreti attuativi. Un timing ottimista, se si pensa al destino avuto dall’ultima riforma della Pubblica amministrazione messa in piedi dal centrosinistra. Era il 1996. L’autore di quella riforma fu Franco Bassanini (che ha avuto un ruolo importante nella stesura anche di questa). Nel 1998 sono entrati in vigore i primi decreti attuativi. Ma per aspettare di veder girare quella riforma a pieno regime ci sono voluti in tutto non pochi mesi, ma quattro anni tondi tondi.
Vista anche l’attualità dell’immagine, la domanda è semplice: ma questo famoso pacchetto sulla Pubblica amministrazione, questa “grande” e “straordinaria” riforma approvata dal governo dodici giorni fa e firmata finalmente dal presidente della Repubblica (martedì, durante Italia-Uruguay) e alla fine pubblicata in Gazzetta ufficiale (nella notte di martedì), fino a che punto morde la burocrazia, fino a che punto aggredisce le incrostazioni del settore pubblico e fino a che punto coincide con quel progetto di grande riforma annunciato dal presidente del Consiglio all’inizio del suo mandato? A una prima analisi la valutazione complessiva raggiunge la sufficienza: su alcuni passaggi il governo ha lanciato un guanto di sfida alla magistratura, ai sindacati, ad alcuni pezzi di macchina ‘ statale (vedremo quali), e sentire dire dal presidente della Corte dei Conti, Raffaele Squitieri, intervistato ieri dal Messaggero, che il senso della riforma Madia è che rappresenta “una sostanziale rottamazione”, fa oggettivamente un certo effetto. Su altri punti invece il governo è stato costretto, o meglio, ha deciso di fare qualche passo indietro, di non giocare troppo con il bisturi, di non esagerare con le spallate e di confermare una scelta tutto sommato discutibile, simile a quella portata avanti attraverso il Jobs Act: inserire il grosso della riforma, la ciccia, il succo del progetto, non in un decreto ma in un più tortuoso e lungo disegno di legge delega. Da questo punto di vista ha ragione il presidente della Corte dei Conti: i due decreti rappresentano una rivoluzione più di metodo che di progetto, e l’espressione migliore per circoscrivere il senso della riforma è proprio usata da Squitieri: rottamare. Ma per rivoltare la Pubblica amministrazione come un calzino siamo sicuri che la rottamazione sia sufficiente? E che dietro la rottamazione non si nasconda qualche mediazione di troppo? Vediamo punto per punto.
Magistrati. Quella con la magistratura è stata una delle partite più delicate giocate sui capitoli della riforma. In un primo momento l’idea del governo era quella di introdurre due principi tosti, letali: incompatibilità totale tra il ruolo di magistrato e un incarico pubblico e pensione immediata per tutti i dipendenti pubblici (compresi dunque i magistrati) che avessero raggiunto i 70 anni. Passo dopo passo, le norme sono state alleggerite e il risultato è che l’incompatibilità non è più totale (sarà sufficiente essere fuori ruolo) e che i magistrati over 70 in ruoli apicali (magistrati ordinari, amministrativi e contabili in “funzioni direttive o semidirettive” o incarichi dirigenziali) potranno restare in servizio fino al 31 dicembre 2015 (per tutti i dirigenti pubblici in pensione, invece, magistrati compresi, sarà possibile accettare una carica solo a titolo gratuito). La condizione di essere “solo” fuori ruolo è un passo indietro rispetto all’idea di doversi dimettere dalla magistratura, ma una differenza con il passato esiste: fino a oggi, infatti, a un magistrato, per accettare un incarico pubblico, bastava mettersi in aspettativa (giochino tecnico grazie al quale era possibile maturare anni di anzianità anche stando lontano dalla magistratura: vedi il caso di un Filippo Patroni Griffi, consigliere di stato, che dopo aver passato molti anni nei ministeri ha maturato un’anzianità tale da essere stato promosso a presidente di sezione del Consiglio di stato). Non appella il decreto sarà convertito in legge, il gioco non sarà più possibile. Questo però non toglie che rinviare al 31 dicembre 2015 l’uscita dei magistrati over 70 costituisce un privilegio non da poco. La norma, così si dice, è stata introdotta per “salvaguardare la funzionalità degli uffici giudiziari e per evitare che gli uffici direttivi degli organi della magistratura o dei tribunali si ritrovassero con sedi vacanti”. Ma per tutti gli altri casi della Pubblica amministrazione il limite è al 31 ottobre 2014. Il presidente della Corte dei Conti, dunque, ha ragione a dire che la riforma contiene i geni della rottamazione e ha ragione a ricordare che nella sola Corte dei Conti su 400 magistrati i rottamati sarebbero circa 100. Tutto questo è vero. Ma è anche vero che mai come in questo caso la rottamazione è annunciata, e chissà poi cosa succederà il 31 dicembre 2015.
Sindacati. La partita con i sindacati si può dire sia finita tre a uno per il governo. I gol coincidono con alcuni risultati raggiunti da Renzi, e che hanno un peso indiscutibile. Il primo riguarda il famoso taglio del 50 per cento ai permessi sindacali. Ogni giorno, come è noto, ci sono 4.000 dipendenti pubblici in permesso sindacale retribuito e il governo (dal primo settembre 2014, non più dal primo agosto) ha scelto di dimezzare il monte ore del 50 per cento per risparmiare circa 115 milioni di euro all’anno. Il taglio ha superato l’esame del Quirinale. Così come l’esame l’ha superato un altro provvedimento importante: la riduzione del 50 per cento dei distacchi sindacali, ovvero dei dipendenti pubblici ai quali è concesso lavorare all’interno dei sindacati pur conservando lo stipendio pubblico. Secondo i calcoli del governo, il dimezzamento di tutti i distacchi (che in totale sono circa 2.800) determinerebbe il ritorno in servizio, a partire dal primo settembre 2014, di 1.400 dipendenti. Il terzo gol segnato dal governo (che però sarà convalidato solo dopo un’accurata visione con la moviola in campo) è legato al capitolo mobilità. Il decreto prevede la possibilità di spostare, “senza assenso”, da un posto di lavoro a un altro i dipendenti pubblici purché lo spostamento avvenga nell’arco di 50 chilometri dalla sede originaria. Norma sacrosanta che nasconde però un problema non da poco: spostare sarà possibile, d’accordo, ma il decreto non specifica chi sarà l’organo deputato a decidere gli spostamenti, e dunque, per capire se vittoria sarà per il governo, occorrerà aspettare davvero il responso della moviola. E il gol del sindacato? Uno. O meglio uno e mezzo. Il gol vero è relativo a una promessa strappata al governo: ok i tagli, ok la mazzata ai privilegi, ma in cambio prometteteci che non toccherete i 600 milioni di euro destinati ogni anno dallo stato ai patronati e ai Caf. Promessa accordata. L’altro mezzo gol ottenuto dal sindacato anche questo andrà convalidato dopo attenta visione alla moviola è stato quello di aver ottenuto dal governo l’inserimento delle norme più toste per i lavoratori anche a livello di salario, vedi il capitolo sul ruolo unico della dirigenza non nel decreto ma nel disegno di legge. Così come, ammettono a Palazzo Chigi, al sindacato è stato promesso che verrà inserito nel disegno di legge delega la riapertura della contrattazione normativa (vecchio pallino della Cgil). Ma i disegni di legge delega, è noto, si sa come nascono ma non si sa mai come finiscono.
Il rinvio e il Quirinale. Chi dice che tra la presidenza della Repubblica e la presidenza del Consiglio non c’è stato alcun tipo di attrito rispetto al capitolo della Pa non dice il vero. Gli attriti e le differenze di vedute ci sono stati. E’ merito del Quirinale se i magistrati hanno ottenuto qualche deroga (e la richiesta di non rendere incompatibile il ruolo di magistrato con quello di funzionario di stato ha trovato un sponsor al Quirinale nella figura di Donato Marra, segretario generale della presidenza della Repubblica e consigliere di stato, che sarebbe risultato incompatibile nel caso tale norma fosse stata approvata integralmente). Ed è per lavorio del Quirinale se i diritti annuali che le imprese pagano alle Camere di commercio sono stati tagliati del 50 per cento e non del 100 per cento, come Renzi avrebbe voluto in un primo momento. Ed è merito del Quirinale anche lo spezzettamento del decreto (il decreto licenziato il 13 giugno scorso è stato spacchettato in due distinti provvedimenti, da un lato Pubblica amministrazione e semplificazioni e dall’altro crescita) e la scelta di confermare il grosso della riforma, per evitare di scavalcare in modo eccessivo il Parlamento, non nel decreto ma nel disegno di legge delega. In questo quadro, ciò che può essere rimproverato al governo è non aver avuto il coraggio di puntare su alcuni provvedimenti che avrebbero potuto dare un segno diverso alla riforma (nessuna notizia sulla riconfigurazione complessiva della Ragioneria di stato; nessuna notizia sull’abrogazione delle funzioni giurisdizionali del Consiglio di stato; nessuna notizia sulla riforma complessiva della Corte dei Conti e sulla possibilità di abrogare il controllo preventivo di legittimità che la Corte ha sugli atti della Pubblica amministrazione; nessuna notizia sulla riforma della Giustizia contabile) e non aver avuto il coraggio di inserire nel decreto ma solo nel disegno di legge delega un punto chiave: il ruolo unico della dirigenza. Ovvero sia la fine della divisione in due delle categorie della Pubblica amministrazione (prima fascia e seconda fascia) e l’avvento del ruolo unico (in sostanza significa che non ci saranno più promozioni legate all’anzianità ma che tutti i dipendenti avranno un unico contratto, con stipendio fisso, e con la parte variabile che sarà legata agli incarichi dirigenziali che verranno assegnati di volta in volta a tempo determinato). Al momento, così risulta al Foglio, il disegno di legge non è ancora stato scritto e ci vorrà del tempo. Il timing del governo è quello di convertire in legge il decreto entro Ferragosto, di approvare tra settembre e dicembre la legge delega e di partire da gennaio con i decreti attuativi. Un timing ottimista, se si pensa al destino avuto dall’ultima riforma della Pubblica amministrazione messa in piedi dal centrosinistra. Era il 1996. L’autore di quella riforma fu Franco Bassanini (che ha avuto un ruolo importante nella stesura anche di questa). Nel 1998 sono entrati in vigore i primi decreti attuativi. Ma per aspettare di veder girare quella riforma a pieno regime ci sono voluti in tutto non pochi mesi, ma quattro anni tondi tondi.
Quanti morsi ha dato Renzi alla Pa?