«Fui trattata abbastanza male dal Pd quando feci la riforma del mercato del lavoro. E per me oggi sarebbe facile dire “avete quel che vi meritate”, ma il punto non è questo. Piuttosto mi chiedo se l’abolizione dell’articolo 18 sia davvero quel che serve». Elsa Fornero, che da ministro del Lavoro del governo Monti ebbe il coraggio di intaccare il tabù dell’articolo 18, risponde al telefono da Bruxelles, dove ha partecipato a un convegno sull’occupazione promosso dal commissario uscente Làszló Andor.
Non serve abolire il diritto al reintegro nei licenziamenti senza giusta causa?
«Guardi, nel convegno sono emerse due cose. La prima è che le riforme del mercato del lavoro da sole non creano occupazione. Devono essere collegate a politiche macroeconomiche. L’Europa ha già fatto molto sul lato dell’offerta, ma non abbastanza su quello della domanda. La seconda è che non possiamo essere schizofrenici».
In che senso?
«Che da una parte ci lamentiamo della precarietà e dall’altra liberalizziamo sempre più i contratti, che quando va bene si tramuta in flessibilità, quando va male in libertà per i datori di lavoro di fare quello che vogliono. E in un periodo di grave crisi questi non privilegiano certo la stabilizzazione dell’occupazione e il capitale umano».
Forse l’accelerazione di Renzi risponde alle pressioni internazionali, dalla Bce alla Commissione europea.
«Non credo proprio. Ho parlato con i vertici dell’Ocse e, semmai, sono sconcertati che si torni a discutere di articolo 18, già riformato solo due anni fa. Si sarebbe dovuto seguire un metodo diverso: valutare i risultati di quella riforma e vedere se essa andava corretta. Misurare quanti sono stati i licenziamenti, quanti i reintegri decisi dal giudice e quanti gli indennizzi e soprattutto quante controversie sono state risolte con la conciliazione. Questo non è stato fatto, rafforzando l’immagine di un Paese che cambia in continuazione le norme senza che si capisca perché. L’incertezza aumenta e questo non spingerà gli investitori esteri a venire in Italia».
E allora perché Renzi avrebbe deciso di accelerare?
«Per risolvere un conflitto nella maggioranza, accogliendo la richiesta del Nuovo centrodestra, che ne fa una vittoria di bandiera. Non è un buon presupposto per la riforma».
Molti però sostengono che la sua non abbia funzionato.
«Ripeto, verifichiamo. La mia riforma arrivò in un momento sbagliato, di acuta crisi economica. Ma aveva molta sensibilità sociale. Cercava di rendere meno precario l’ingresso al lavoro e un po’ meno rigida l’uscita, perché le due cose stanno insieme. Però, se non c’è domanda di lavoro, l’unico modo per crearla è ridurre in maniera significativa le tasse sul lavoro. Ma su questa, che è la vera cosa importante, non abbiamo ancora capito come farà il governo».
Il contratto a tutele crescenti le piace?
«Sulla carta è interessante, ma bisognerà vedere bene i contenuti. Se la tutela crescente si risolve in un po’ più di indennizzo in cambio della libertà di licenziare, allora non è che sia un gran tutela. Il diritto al reintegro resterà solo sui licenziamenti discriminatori, ma è molto difficile per il lavoratore provare questa fattispecie».
Le nuove regole si applicheranno ai nuovi assunti.
«Appunto. Invece di eliminare la divaricazione tra vecchi e giovani ne creiamo una nuova. Lo stesso errore del 1995 con la riforma delle pensioni».