L’ordinanza del 14 ottobre 2015 del Tribunale di Roma, sezione lavoro, ha rigettato il ricorso presentato da un lavoratore per sentir dichiarata, una volta accertata l’illegittimità del contratto a progetto stipulato con una società, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e la conseguente illegittimità del recesso dal contratto, ai fini dell’applicazione delle tutele previste all’art. 18 della legge n. 300 del 20 maggio 1970. Il giudice ha sancito l’inapplicabilità dell’art. 18 nel caso in cui sia intervenuto recesso ante tempus dal contratto a progetto dichiarato illegittimo, propendendo quindi per l’applicabilità delle tutele previste dall’art. 69 del d.lgs. n. 276/2003, anche alla luce delle recenti riforme della materia varate tra il 2012 e il 2015.
Occorre preliminarmente osservare che la disciplina che regolava il contratto di collaborazione a progetto è stata abrogata dall’art. 52 del d.lgs. n. 81/2015, decreto il quale ha peraltro previsto all’art. 2, comma 1, una nuova disciplina dei contratti di collaborazione cui si applica la disciplina del lavoro subordinato (c.d. collaborazioni etero-organizzate, il cui inquadramento della fattispecie non è pacifico in dottrina: sul punto si veda F. Carinci (a cura di) Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, ADAPT Labour Studies, e-book series n. 48). Ma nulla vieta alle collaborazioni stipulate ex artt. 61-69 del d.lgs. n. 276/2003 prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 81/2015 di continuare a produrre i propri effetti, proprio come chiarisce il legislatore all’art. 52, comma 1 del decreto legislativo n. 81.
Con il d.lgs. n. 276/2003, modificato dalla legge n. 92/2012, il legislatore aveva introdotto una rigorosa disciplina per il lavoro “a progetto”, al fine di fermare il diffuso ricorso abusivo a detta tipologia contrattuale. L’art. 67, comma 1 del decreto n. 276/2003, infatti, precisava che era il progetto a costituire l’oggetto del contratto o, ancora meglio, dell’obbligazione lavorativa; esso doveva inoltre essere collegato ad un determinato risultato finale e non tradursi in una mera riproposizione dell’oggetto sociale dell’impresa (v. anche circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, n. 29 del 2012). Pertanto, i contratti di collaborazione coordinata e continuativa stipulati senza riferimento ad uno specifico progetto erano considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La forma tipica di estinzione del contratto a progetto era poi la realizzazione del progetto stesso, quindi il rapporto si doveva estinguere ipso iure al raggiungimento di tale risultato (art. 67, comma 1). La realizzazione del progetto poteva comunque sopraggiungere anche prima della scadenza del termine indicata nel contratto, in quanto il termine non indicava la durata della prestazione ma la durata massima entro la quale il progetto doveva essere ultimato. Il recesso anticipato (c.d. recesso ante tempus), di contro, era consentito solo per giusta causa, oppure con le modalità pattuite nel contratto individuale, che poteva limitarsi a prevedere un preavviso (art. 67, comma 2). Il recesso, inoltre, poteva essere esercitato dal committente per inidoneità del collaboratore tale da impedire la realizzazione del progetto.
Il giudice, nel caso in commento, ha osservato che “alla luce delle riforme legislative del 2012 e del 2015 non può essere condiviso l’assunto in base al quale il recesso da un contratto a progetto illegittimo debba essere qualificato quale licenziamento nell’ambito della disciplina di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970”. Il nuovo assetto normativo, infatti, “presuppone la tipizzazione delle ipotesi di licenziamento e porta ad escludere che possa essere considerato licenziamento un atto risolutivo di un rapporto formalmente non subordinato”. Ci si troverebbe quindi nell’impossibilità di inquadrare il recesso tra le categorie giuridiche dell’art. 18, alla stregua di un licenziamento, e sarebbe altrettanto impossibile individuare la sanzione applicabile.
La valutazione del giudice fa leva sul meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 69 della legge n. 276/2003. Infatti, qualora il rapporto di lavoro a progetto risulti illegittimo perché caratterizzato dalle forme tipiche della subordinazione, scatterebbero le tutele previste appunto dall’art. 69 del d.lgs. n. 276/2003, cioè il meccanismo sanzionatorio per il quale viene a costituirsi un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Al di là del nomen juris attribuito dalle parti al rapporto controverso, l’esistenza di un progetto non è infatti elemento sufficiente a comprovare la natura autonoma del rapporto qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano effettivamente subordinate. Si tratta anche di rispettare il principio sancito dall’art. 1362 c.c. in tema di interpretazione del contratto, e cioè avere riguardo non solo alla dichiarazione delle parti ma anche al comportamento posteriore alla conclusione del contratto. Questa interpretazione risulta ancora più chiara al comma 3 dell’art. 69, ove si ribadisce, da una parte, il divieto per il giudice di sindacare nel merito le scelte dell’imprenditore, e, dall’altra, l’obbligo a qualificare il contratto avendo riguardo non solo all’esistenza del progetto ma anche al comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto.
Il giudice di merito perviene a questa conclusione prendendo le mosse dall’istituto del recesso ante tempus previsto dal contratto impugnato e di cui si è avvalso il committente. Non è stata ravvista la necessità di “configurare l’atto (di recesso) quale licenziamento ai fini dell’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970” perché, in presenza di un contratto a progetto illegittimo, l’eventuale recesso ante tempus dal contratto medesimo deve considerarsi privo di effetti in quanto “costituisce mero esercizio di una facoltà che presuppone la legittimità e la conformità al tipo legale del contratto”. L’inidoneità del recesso a produrre effetti, quindi, impedisce la risoluzione del rapporto di lavoro, che continua a sussistere. Ed è per questa ragione che, una volta accertata l’illegittimità del contratto, non può trovare applicazione l’art. 18 della l. n. 300/1970 ma l’art. 69, comma 2 del d.lgs. n. 276 del 2003.
Diversa, invece, è l’ipotesi di recesso posto in essere non a titolo di facoltà prevista dal contratto ma per giusta causa o per giustificato motivo. In questo caso, precisa l’ordinanza del Tribunale di Roma, “potendo assimilare la fattispecie al licenziamento, nell’ipotesi di sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato” accertato in giudizio potrebbe essere applicata la disciplina prevista dall’art. 18 delle legge n. 300 del 1970; ma questo presuppone che “non si sia trattato comunque di un recesso dal contratto a progetto, ma di un vero e proprio licenziamento”, cioè di un recesso da un contratto di lavoro di fatto subordinato.
Giovanni Piglialarmi
Dottore in Giurisprudenza
Praticante Avvocato Giuslavorista presso il Foro di Roma
@GiovanniDemon