“Sarò sbrigativo: a me dell’articolo 18, usando un tecnicismo giuridico, non me ne po’ fregà de’ meno. L’articolo 18 è un feticcio, un totem ideologico attorno al quale c’è una grande danza degli addetti ai lavori”. Così diceva Matteo Renzi il 27 marzo 2012, ad Alessandro Milan ai microfoni di Radio 24.
È con una copia pedissequa di questa dichiarazione, rilasciata a Millennium (Rai3) il 12 agosto di quest’anno, che si è riaperta la stagione del valzer mediatico attorno al simbolo giuridico del conflitto tra conservatori e riformisti del lavoro, sempre che queste due categorie siano ancora utili a identificare dei gruppi di pensiero.
Di messaggi come questi, tutti volti a minimizzare la portata reale di un eventuale modifica della disciplina del licenziamento individuale, è fatta la scarna playlist che potrebbe raccogliere tutti gli interventi dal titolo “Renzi e l’articolo 18”.
Che il premier parli come un disco incantato non è un particolare problema per la sua efficacia comunicativa: noi italiani dimostriamo da sempre di avere scarsa memoria storica e politica, e ogni variante dell’identico ci pare una novità esclusiva. Basta che sia passato qualche mese.
Rispondendo alle sollecitazioni d’agosto di Angelino Alfano probabilmente Renzi aveva quindi sperato che confondere le acque derubricando ancora una volta la questione a una contesa ideologica sarebbe bastato a riportare l’annoso dibattito nelle retrovie della notiziabilità.
Invece questa volta la posta in gioco era più alta e il Presidente del Consiglio ha dovuto presto rendersene conto. I ministri dell’ economia d’Europa e poi anche la BCE sono tornati a sollecitare la flessibilizzazione del marcato del lavoro italiano, mentre con il riavvio della discussione del disegno di legge delega in Commissione Lavoro al Senato, osservatori e commentatori sono sembrati scoprire seduta stante che l’ormai famigerato contratto a tutele crescenti implicava, quasi una tautologia, la definizione delle tutele stesse.
Il nodo da mediatico si è fatto quindi anche politico. Giusto dopo la consegna del testo emendato dalla Commissione, con il Governo che faceva sapere di non ritenere necessarie ulteriori modifiche, la minoranza del PD ha anticipato i tempi del contrattacco atteso alla Camera, votando sette emendamenti già in Senato.
Renzi si è trovato quindi costretto in un angolo dal quale ha tentato di uscire in due tempi. Prima con la rivalutazione comunicativa dell’importanza dell’articolo 18. Senza svolte nette, senza colpi di teatro, ma ora il fatto stesso che la diatriba avesse natura eminentemente mediatica (così ha continuato ad affermare il premier) poneva il suo superamento come obiettivo ad alto valore simbolico. Condivisibile: se la politica Italiana ha bisogno di superare degli artefatti culturali per poter proseguire più speditamente con le riforme, allora è il caso di vincere la sfida, riconoscendo nell’articolo 18 la porta necessaria ad aprirne altre.
Quindi il premier ha avanzato la promessa politica di un intervento per decreto nel caso di affossamento della riforma, riproponendo il suo schema ormai tradizionale: lo scavalcamento istituzionale e comunicativo dei corpi intermedi.
È per questa via che Renzi ha cominciato a legare il tema dell’articolo 18 a quello dell’estensione delle tutele, al superamento del dualismo del mercato del lavoro Italiano, fin ad arrivare a dire domenica scorsa a Che tempo che fa, che “gli investitori esteri sono terrorizzati” dall’incertezza che l’articolo 18 determina e che “Noi non cancelliamo semplicemente l’art. 18, ma tutti i co.co.co, co.co.pro…”.
L’attitudine era ancora la stessa: minimizzare l’importanza del singolo articolo legandolo all’ispirazione complessiva della riforma, tuttavia di “cancellazione” il premier non si era mai spinto a parlare. E avrebbe fatto bene a trattenersi ancora per poco, visto che nell’ordine del giorno votato dalla direzione del suo partito 24 ore dopo, l’annunciata cancellazione si era tramutata in un compromissorio mantenimento della reintegra per i casi di licenziamento, non solo discriminatorio, ma anche disciplinare. In buona sostanza, un mini-ritocco della riforma Fornero, una limatura che è suonata paradossalmente come una conferma. Un esito che ha dato ragione a chi temeva che il tanto rumore prodotto si sarebbe rovesciato in un nulla di fatto.
Se questo è il costo che Renzi ha dovuto pagare per mantenersi al centro del sistema politico italiano senza passare da nuove elezioni, il prezzo rischia di essere ancora più alto per un Paese che non può permettersi diluizioni e ritardi in una riforma attesa con tanta insistenza dagli osservatori internazionali. Renzi lo diceva il 20 dicembre del 2013: “Se si riparte dal derby ideologico sull’articolo 18 siamo finiti”. Ora che malauguratamente proprio da lì siamo ripartiti, speriamo tutti avesse torto.
ADAPT Research fellow