Ho conosciuto Giorgio Usai nel 2010, quando sono tornato a lavorare in Cgil dopo un decennio di altre esperienze. Era una fase piuttosto indecifrabile per me, che dovevo ricominciare da capo e, forse, anche per le relazioni industriali italiane. Non c’era più la concertazione, non c’era più nemmeno l’unità “di intenti”, come si dice, tra Cgil Cisl e Uil. Molti accordi e contratti erano stati fatti senza la firma della Cgil. O, se si preferisce, la Cgil si era sottratta al “nuovo corso” delle relazioni sindacali che stava prendendo piede nel Paese, secondo la formula (sostenuta dal Governo) che per firmare gli accordi basta la maggioranza delle sigle sindacali (trascurandone la reale rappresentatività). Non c’erano più le scuole sindacali delle aziende pubbliche (Intersind e Asap) con la loro capacità di individuare soluzioni contrattuali condivise anche su materie innovative. Restava egemone la cultura sindacale di Federmeccanica (da cui proveniva Giorgio Usai), che avevo frequentato anche io da giovane, senza mai condividerne, lo ammetto, i presupposti di separazione netta degli interessi e di contrapposizione pregiudizievole dei ruoli. L’idea secondo cui accordi e contratti sono sempre il risultato del cedimento di una delle due parti e mai (o quasi mai) un comune convincimento.
Ma la stagione di relazioni che si stava aprendo nel 2010 conteneva germi di innovazione molto interessanti. La Confindustria di Emma Marcegaglia aveva proposto ai sindacati un confronto su temi di grande rilevo (dall’innovazione, all’ambiente, alla formazione, alla struttura contrattuale…). Una sorta di “Patto per l’Italia” si potrebbe dire, non certo solo “per la fabbrica”. E dopo qualche mese di lavoro quasi collegiale (impegnati i gruppi dirigenti di Confindustria, dei sindacati e di altre associazioni coinvolte) erano stati firmati una decina di accordi interconfederali tematici (sarebbe interessante andarli a rileggere oggi). Nell’idea, condivisa dalle parti sociali, che il Paese stesse vivendo un momento di grande difficoltà economica e che bisognava far convergere le energie di tutti verso un surplus di innovazione, di efficienza, di produttività, di occupazione. Mentre il Governo, anche allora, minimizzava dicendo che l’Italia non era toccata se non marginalmente dalla crisi globale in atto e che eravamo già “oltre la boa”.
Non si firmò invece il testo sulle relazioni industriali e la struttura della contrattazione. Oggetto del contendere era ancora il concetto di “deroga” al contratto nazionale su cui la Cgil aveva già dal 2009 espresso la propria contrarietà. Ricordo i diversi tentativi che facemmo con Usai, e il direttore Galli per trovare un ragionevole punto di mediazione. Non ci riuscimmo, anche perché Confindustria si trovava in un’imbarazzante posizione centrale (dal mio punto di vista) tra Cisl e Uil che non volevano, comprensibilmente, rinnegare scelte già fatte e la Cgil che non intendeva, altrettanto comprensibilmente, cedere su un punto di principio. E arrivammo anche a litigare ciascuno con i suoi, così come anche in Confindustria vi furono pareri e atteggiamenti diversi. Con Giorgio Usai, ricordo bene, che un giorno si arrabbiò e lasciò l’ufficio del direttore Galli che forse, a suo parere, stava manifestando troppa disponibilità alla Cgil. Perché Giorgio era un negoziatore a volte duro, ma sempre esplicito e diretto: dote importante e non molto diffusa.
Ci voleva un miracolo per risolvere il problema e il miracolo si realizzò in un trimestre, immagino per un lungo paziente lavoro di ricomposizione dei pezzi da parte di Giorgio Usai e degli altri dirigenti Confindustria. Nell’ostilità della Fiat e del Governo, va ricordato.
E arrivammo al 28 giugno e a quell’importante accordo, che segnò una svolta nelle relazioni industriali.
Confesso che se qualcuno mi avesse detto la mattina, dopo l’ultimo incontro con Usai e Galli in Cgil, che la sera avremmo firmato, gli avrei risposto che si sbagliava di molto. E invece la sera trovammo un’importante intesa grazie alla volontà di convergenza di tutti.
Quando Giorgio Usai cominciò a leggere il testo dell’ipotesi di accordo nella sede di Confindustria di Via Veneto, ricordo bene che alla fine della Premessa, proprio dove si dice “tutto ciò premesso, le parti…”, Emma Marcegaglia lo interruppe dicendo: “Bene, ora che abbiamo finito di leggere il Manifesto del Partito Comunista, passiamo agli impegni veri…” perché effettivamente in quella premessa c’erano (e ci sono) i presupposti per cui la Cgil poteva rientrare pienamente nel confronto e firmare il nuovo accordo interconfederale, dopo diversi anni di separazione sindacale.
Ci volle qualche ora di lavoro ancora ma ce la facemmo, con il contributo di tutti. Riuscendo a superare la querelle della “derogabilità” e introducendo l’idea che le regole contrattuali generali debbono essere applicate ed adattate alla contrattazione di secondo livello (fatto salvo il principio che il centro regolatore del sistema resta il CCNL).
Giorgio Usai seppe giocare anche in quelle ore (assieme a Galli e alla Presidente Marcegaglia) un ruolo importante fatto di un mix di rigidità e capacità di ascolto come si deve fare nelle trattative dove, appunto, va ricercata una nuova sintesi tra punti di vista diversi e non una vittoria delle proprie posizioni originarie.
Molti sostennero che la “derogabilità” c’era ancora, solo scritta in altro modo.
Ma, se fosse stato davvero così, mi permetto di osservare, non ci sarebbe stato quel buffo colpo di coda dell’articolo 8 del Governo, secondo cui si possono derogare sia i contratti che le leggi (e quindi anche l’art. 8: come in un nuovo paradossale “Comma 22”) e forse la Fiat non sarebbe uscita da Confindustria.
Se fosse stato davvero così, non ci sarebbe stato bisogno di tornare a firmare insieme in settembre lo stesso accordo.
Poi, come è noto, economia e politica, presero di nuovo il sopravvento sulle relazioni industriali, il nostro “Patto per l’Italia” fu dimenticato nell’emergenza economica e finanziaria, le diverse organizzazioni si allinearono pro o contro gli esecutivi e molti dei protagonisti di quella stagione si riconvertirono ad attività meno generali: compreso Giorgio Usai. Ma io la ricordo come una importante stagione, ricca di potenzialità innovative per il Paese, non solo per le relazioni sindacali.
Si dice spesso “è uno che sa tenere la barra dritta”. Ho letto questa frase anche riferita a Giorgio Usai. Capisco il senso della metafora nautica, ma il nostro è un mestiere molto più complesso dove si devono mescolare di continuo fermezza e duttilità. Preferisco ricordare in questo modo Giorgio Usai: un interlocutore con proprie idee solide che sapeva ascoltare le idee degli altri.
Del resto, chi naviga per mare sa che tenere la barra sempre dritta è un modo sicuro per non arrivare dove si vorrebbe.
Gaetano Sateriale