Riforma pensionistica tedesca: una questione di generational fairness

Il futuro, in ambito previdenziale, coincide, quasi sempre, con un patto tra generazioni, in virtù del quale i figli, ancora lontani dall’età pensionabile, versano i contributi a favore dei loro “padri”, pensionati attuali, senza alcuna certezza – né pieno diritto – di ricevere lo stesso trattamento in futuro e non maturano il diritto alla prestazione pensionistica fino al momento in cui la fattispecie sarà giunta a compimento.

 

Sotto questo profilo, con riguardo, cioè, alla responsabilità nel rapporto tra “padri e figli”, e rispetto alle future generazioni, si potrebbe discutere delle nuove misure pensionistiche tedesche, approvate nei giorni scorsi dal Bundestag su proposta del governo Cdu-Spd di Angela Merkel.

 

La nuova riforma ha sollevato un acceso dibattito tra economisti e commentatori, che hanno criticato aspramente le nuove misure introdotte, destinate inevitabilmente ad accrescere la spesa sociale. Oggetto di critica, invero, non sono stati i provvedimenti che hanno aumentato i contributi figurativi per le maternità ante ’92, né gli incrementi previsti per le pensioni di inabilità, ma le modifiche introdotte in materia di età pensionabile.

 

Le nuove regole consentiranno ai lavoratori con un’anzianità contributiva di 45 anni di accedere alla pensione di vecchiaia, senza alcuna penalità, a 63 anni di età (la riforma del 2007 aveva previsto un incremento dell’età pensionabile a 67 anni a decorrere dal 2029). Facoltà contemplata solo per i nati prima del Cinquantatré, mentre per i lavoratori nati successivamente l’età di pensionamento aumenterà gradualmente di due mesi ogni anno (si veda S. Spattini, In Germania pensione a 63 anni, in Boll. ADAPT, n. 21/2014).

 

In realtà, le norme in argomento possono sembrare severe, se accostate alla pensione anticipata prevista dalla c.d. riforma “Salva Italia” che, pur avendo inasprito i requisiti prima previsti, consente il ritiro dall’attività lavorativa con soli 62 anni di età e 42 anni circa di anzianità contributiva (per l’anno 2014, 42 anni e 6 mesi per gli uomini e 41 anni e 6 mesi per le donne, con una “penalizzazione” per coloro che accederanno al trattamento pensionistico prima dei 62 anni).

 

Anche le obiezioni mosse sotto il profilo della sostenibilità andrebbero approfondite e circoscritte, nonostante, in base alle prime stime, le misure adottate peserebbero ogni anno sui bilanci pubblici tedeschi, fino al 2030, per una cifra compresa tra 9 e 11 miliardi di euro. Infatti, come è stato autorevolmente osservato (si rimanda a G. Cazzola, Che cosa insegna la Germania, in Boll. ADAPT, n. 21/2014), la Germania in questi anni «si è preoccupata di tenere in ordine i conti pubblici» sul versante della spesa sociale.

 

Pare lecito, tuttavia, interrogarsi rispetto all’opportunità, in termini diacronici, delle misure adottate, che suscitano perplessità ove si consideri la direzione intrapresa dal legislatore tedesco. I provvedimenti, infatti, paiono invertire bruscamente la rotta imboccata con le riforme pensionistiche del 2004 (RV-Nachhaltigkeitsgesetz) e del 2007, dettate dall’intento di rendere sostenibile il sistema pensionistico e adeguarlo al fenomeno dell’invecchiamento demografico, per non creare un debito implicito per le giovani generazioni.

 

Tale interrogativo si pone, inoltre, con maggior evidenza, ove si consideri che le nuove norme sembrano muoversi in controtendenza rispetto all’indirizzo dominante adottato dalla maggior parte dei sistemi pensionistici europei, orientato a prolungare il periodo di vita attiva dei lavoratori e a garantire una maggiore integrazione sociale degli anziani.

Nonostante, infatti, sia indiscutibile l’esclusiva sovranità di ciascuno stato in materia di previdenza pubblica obbligatoria (le norme dell’UE e la giurisprudenza della Corte europea ne sono una costante conferma), una riflessione s’impone sulla ratio che sottende alle nuove disposizioni, facilmente ravvisabile ove si abbia riguardo ai beneficiari dei provvedimenti, tesi a tutelare lavoratori e lavoratrici âgé.

 

Tale scelta, che redistribuisce le risorse dalla generazione dei figli a quella dei genitori, realizza la medesima «degenerazione usurpativa» del welfare che, fino al cd. decreto “Salva Italia”, è possibile individuare nelle riforme intervenute in Italia a partire dagli anni ’90, che hanno cercato di fronteggiare le esigenze di riequilibrio dei conti pubblici senza mettere in discussione diritti ormai acquisiti da ampi settori della popolazione, che avrebbero potuto suscitarne la prevedibile resistenza. In questa «arena politica del welfare», i giovani, irrilevanti politicamente, ne sono usciti perdenti, impossibilitati a far sentire la propria voce a difesa delle legittime spettanze.

 

Le nuove misure pensionistiche introdotte nella patria di Bismark, se pur con presupposti diversi, sembrano dettate dalla medesima scelta politica redistributiva, ad esclusivo vantaggio della popolazione âgé in ragione del suo peso elettorale.

 

Il processo evolutivo di un moderno ed efficiente sistema di welfare che si muova nello spazio “allargato” dell’Unione europea (efficace è l’ipotesi del «virtuous nesting scenario» di Ferrera) dovrebbe, a parere di chi scrive, tenere in debito conto anche le prospettive diacroniche, facendosi carico della tutela dei diritti e delle aspettative delle giovani e delle future generazioni.

 

Luisa Tadini

ADAPT Professional Fellow

@luisatadini

 

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* Si segnala che le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’amministrazione di appartenenza.

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