Per ora non ci sono state ricadute sul fronte europeo, ma la Sentenza della Corte Costituzionale che impone al Governo di rifondare i beneficiari delle pensioni per cui era stata bloccata l’indicizzazione, può avere ricadute sul disegno di riforma del lavoro del Governo?
Non c’è dubbio che gli spazi di manovra del Governo si restringono. L’impatto atteso del ripristino dell’indicizzazione è stimato in circa 3 miliardi di euro all’anno a regime. Non c’è solo la maggior spesa per il riconoscimento ex-post della mancata indicizzazione per gli anni 2012 e 2013. La sentenza ha un effetto perdurante (o di “trascinamento” come è stato tecnicamente definito), perché quell’indicizzazione aumenta gli importi di tutte le pensioni future. Nelle condizioni attuali di finanza pubblica, una maggior spesa strutturale di 3 miliardi di euro nel capitolo pensioni implica, per forza di cose, minori risorse disponibili per la riforma del lavoro. Non mi riferisco solo al Job Act e ai nuovi istituti di contrasto della disoccupazione (Naspi, Dis-Coll), ma anche alla riduzione del cuneo fiscale sul lavoro regolare e a tempo indeterminato. Non dimentichiamo che i pur timidi effetti di ripresa dell’occupazione registrati a inizio anno (il numero delle attivazioni di contratti) sono da ricondursi più alle misure di riduzione del cuneo sul lavoro che all’entrata in vigore dei primi decreti attuativi del Job Act. Per verificare gli effetti del Job Act bisognerà aspettare qualche mese.
Mario Monti ha dichiarato che il blocco era strettamente indispensabile e che forse la sofferta sentenza della Consulta “non dà altrettanto rilievo ad altri valori di pari rilevo costituzionale come per esempio il vincolo di bilancio”. All’epoca si trattò effettivamente di un intervento indispensabile?
Quel frangente è stato critico. La più pesante crisi economica dal Dopoguerra per tutta l’Europa. Spread dell’Italia sulla soglia del 6% e necessità di lanciare segnali immediati e forti sulla capacità di controllare la spesa pubblica e la dinamica del debito. A dover sopportare sacrifici non sono stati solo i pensionati privati dell’indicizzazione. Su questo tema riconosco le ragioni sia di Mario Monti che di Elsa Fornero, allora Ministro del lavoro. Non solo il pareggio strutturale del bilancio era già in Costituzione, ma l’austerity ha reso difficile perseguire in maniera piena anche altri obiettivi costituzionali. Si pensi ai sacrifici richiesti alla sanità (che ancora continuano!) o alle condizioni dell’edilizia scolastica che da tempo attende investimenti per consolidare e rinnovare le strutture (dal 2011 a oggi si sono verificati cedimenti e crolli in più Comuni). Insomma sì: l’intervento fu necessario e il Governo se ne assunse la responsabilità politica. Come era giusto che fosse.
Secondo uno studio della Uil i rimborsi rischiano di valere fino a 13 miliari di euro. Secondo la Cgil sono addirittura 16,6 miliardi. Qual è la stima più realistica secondo lei?
La stima più realistica è di circa 3 miliardi di euro all’anno a regime. Nei primi anni, oltre alla maggior spesa annuale, c’è anche il “rimborso” ex-post della mancata indicizzazione per il 2012 e il 2013, che poi ha avuto effetto di “trascinamento” anche sul 2014 e li sta avendo sul 2015. Potremmo dire che oggi si è accumulato un “debito” per rimborso della mancata indicizzazione di circa 9 miliardi di euro, e a questo debito vanno aggiunte di volta in volta le maggiori spese per il futuro, quantificabili, come ho detto, in circa 3 miliardi di euro all’anno. Però meglio aspettare una qualche quantificazione ufficiale dell’Inps o della Ragioneria generale dello Stato.
Tra le soluzioni allo studio (rateizzazione, contributo di solidarietà per gli assegni alti, decreto legge per tre scaglioni) quale appare più convincente?
Aspetto di leggere le proposte del Ministero del tesoro e del Ministero del lavoro. Penso che rimodulare l’intervento sia meglio che rinunciare del tutto ai suoi effetti e rateizzare i rimborsi. I rimborsi rateizzati sono debito pubblico implicito. Si potrebbe rimodulare l’intervento innalzando la soglia esente, con indicizzazione al 100%, e poi creando due o tre scaglioni con indicizzazione decrescente sino ad annullarsi. Che è poi la logica già seguita nella Legge di Stabilità per il 2014 (anch’essa intervenuta sull’indicizzazione delle pensioni). Solo che così non si riesce a mantenere la parità di effetto sui saldi di finanza pubblica. Ma meglio che niente. In alternativa, c’è la strada del contributo di solidarietà sulle pensioni più alte. E la Corte che cosa direbbe? La soluzione migliore, quella più trasparente e “pulita”, dovrebbe essere il ricomputo contributivo di tutte le pensioni per poter chiedere un contributo di solidarietà a quelle il cui importo non è giustificato dai contributi versati in corso vita lavorativa. Un calcolo non agevole, che necessita di tempo e forse anche del ricorso ad alcune ipotesi. Deve esser chiaro, però, che se a inizio anni ‘90 (altro momento turbolento per l’economia e la finanza pubblica) le grandi riforme non fossero state eccessivamente garantiste e prudenti sul fronte delle pensioni, adesso non ci troveremmo a dover discutere di indicizzazione. A chi troppo facilmente rinfaccia il tradimento di valori costituzionali bisognerebbe ricordare anche questo.
Ora si sta tentando di fornire una risposta alla sentenza, ma andando oltre l’emergenza contingente, siamo comunque di fronte allo scenario di un invecchiamento costante della popolazione. Quale sarebbe il primo intervento da compiere per costruire la sostenibilità della previdenza del futuro?
Direi tre punti in agenda: 1) pensionamento flessibile con assegni adeguati alla vita attesa al momento del pensionamento; 2) riduzione della contribuzione al pilastro pubblico (si può cominciare dalle generazioni più giovani, per esempio sotto i 40 o sotto i 35 anni); 3) slancio, anche grazie alla riduzione dei contributi al primo pilastro, al sistema multipillar bilanciato tra finanziamento pay-as-you-go e finanziamento tramite accumulazione reale. Sono i tasselli di un nuovo equilibrio che non riguarda solo le pensioni ma tutto il welfare system.
* Nicola Salerno è ADAPT Professional Fellow e promotore di Reforming.it.
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Rimodulare l’intervento sulle pensioni è meglio che rinunciare del tutto ai suoi effetti