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Bollettino ADAPT 12 aprile 2021, n. 14
L’istruzione operativa INAIL 1° marzo 2021, in risposta ad un quesito di un Ospedale ligure in merito ai provvedimenti da adottare nei confronti dei dipendenti “no vax” anti-Covid19, l’emanazione del D.L. 1° aprile 2021, n. 44 (il cui art. 4 ha introdotto un vero e proprio obbligo vaccinale per il personale sanitario), e l’aggiornamento dei protocolli per il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro offrono uno spunto interessante per mettere a fuoco l’orientamento adottato dalle istituzioni nell’ultimo anno con riferimento al rapporto tra rischio professionale e contagio. Difatti, il coronavirus SARS-CoV-2 è stato qualificato come malattia-infortunio, per cui, “fermo restando l’inquadramento tra gli infortuni sul lavoro, si applicano i medesimi criteri probatori in vigore per l’accertamento dell’esposizione a rischio e del nesso di causalità vigenti per le malattie professionali” (L. La Peccerella, Infezione da coronavirus e tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, in DSL, 2020, n. 1, p. 2).
Come punto di partenza bisogna dare atto che il fenomeno è fortemente condizionato dalla eccezionalità della situazione ingenerata dalla pandemia. La risposta all’interpello del 18 febbraio 2021, per certi versi, ha precorso i tempi: “la tutela assicurativa INAIL non può essere sottoposta ad ulteriori condizioni oltre a quelle previste dalla legge“, per cui anche il lavoratore “renitente” soggetto ad obbligo vaccinale che contragga il virus in occasione di lavoro può avere accesso alla tutela previdenziale beneficiando ancora del sistema delle presunzioni che aveva già dato adito a dubbi quando fu emanato l’art. 42 del decreto-legge n. 18 del 2020.
A tale conclusione si perviene anche alla luce del consolidato orientamento sia giurisprudenziale che amministrativo (dello stesso INAIL), in base al quale il comportamento colposo del lavoratore non esclude l’operatività della tutela antinfortunistica, ma solo la responsabilità datoriale. Non si può infatti ritenere che il rifiuto di vaccinarsi, per quanto illogico in situazioni nelle quali il lavoratore è esposto ad un rischio di contagio o di trasmissione del virus particolarmente elevato, costituisca “rischio elettivo” o comportamento doloso, in quanto il lavoratore non cerca deliberatamente il contagio. Tuttavia, se nell’istruzione del 1° marzo l’Istituto è partito dall’assunto che “non si rileva, allo stato dell’attuale legislazione in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, un obbligo specifico di aderire alla vaccinazione da parte del lavoratore” (in merito al quale si vedano le considerazioni di G. Benincasa, G. Piglialarmi, Covid-19 e obbligo giuridico di vaccinazione per il dipendente, Working Paper Salus ADAPT n. 1/2021), rimarcando la riserva di legge in materia di trattamenti sanitari ed evidenziando come, al tempo, il vaccino fosse solo fortemente raccomandato, oggi l’obbligo vaccinale – per alcune categorie di lavoratori – c’è, e la conseguenza dell’inadempimento è “la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti diretti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2“.
Bisognerà valutare in concreto le ripercussioni che avrà questo cambiamento sul piano applicativo, considerando comunque che l’INAIL aveva già precisato nella circolare n. 22 del 20 maggio 2020 che l’inosservanza dei protocolli da parte del datore di lavoro non influenza in alcun modo la percezione delle prestazioni da parte del lavoratore, incidendo al più sul profilo della responsabilità datoriale, da contemperare con l’impossibilità di pretendere dal datore di lavoro un ambiente “a rischio zero”, mentre per quanto riguarda il lavoratore, invece, tale modifica potrà incidere sulla tripartizione del grado di rischio professionale che, in base all’attività svolta, era stato classificato in “generico”, “aggravato” o “specifico”, tenendo conto in ogni caso dell’estensione della tutela anti-infortunistica anche al rischio “improprio”. In relazione al rischio improprio, infatti, occorre considerare che l’eventualità che il lavoratore possa contrarre il Covid-19 anche nell’espletamento di attività correlate, strumentali, eventuali o, comunque, non richiamate nelle mansioni svolte ma ad esse funzionali, amplia evidentemente il novero delle attività che implicano rischi di diffusione del contagio: se la Cassazione (Cass. n. 180/2005) ha considerato “attività accessoria e strumentale” anche l’utilizzo dei servizi igienici, è evidente come evitare la sospensione dall’attività lavorativa adibendo il lavoratore non vaccinato a mansioni diverse rappresenterà una soluzione residuale, almeno in un’ottica di esonero dalla responsabilità datoriale.
In conclusione, occorre comprendere come cambierà la valutazione dell'”occasione di lavoro” in tutti i casi in cui il lavoratore non vaccinato, escluso di diritto dalle attività ad alto rischio di esposizione (e, quindi, caratterizzate da un rischio aggravato o specifico), contragga il coronavirus sul luogo di lavoro – naturalmente, nello svolgimento delle nuove mansioni – e non possa beneficiare della presunzione semplice della quale godeva in passato (proprio grazie alla ricomprensione delle sue vecchie mansioni tra quelle soggette a rischio aggravato o specifico) a causa della disposizione di legge che gli preclude espressamente ogni prestazione che comporti contatti interpersonali o qualsiasi rischio di diffusione del contagio.
Sino ad oggi non si sono posti particolari problemi in merito alla risarcibilità di un danno differenziale – inteso come differenza tra la prestazione INAIL ed il danno accertato – a favore dei lavoratori, né alla possibilità di rivalsa per l’INAIL nell’esercizio del diritto di regresso a seguito dell’accertamento della responsabilità datoriale, entrambi da circoscrivere unicamente ai casi di “dolosa o colposa esposizione al contagio dei dipendenti per la mancata osservanza della normativa anti Covid-19” (D. Garofalo, Lavorare in sicurezza versus ripresa delle attività produttive, in MGL, 2020, n. 2, p. 11 del dattiloscritto). Il rispetto dei protocolli da parte del datore di lavoro dovrebbe dunque esonerarlo dall’eventualità sia che l’INAIL richieda la ripetizione delle somme erogate sia che il lavoratore gli imputi il danno derivante dal contagio. La posizione dell’INAIL espressa nella circolare n. 22 del 20 maggio 2020 rimane tutt’oggi attuale, anche a seguito dell’introduzione di un obbligo vaccinale per alcune categorie di lavoratori, pur potendo variare i criteri per l’accertamento della responsabilità datoriale.
Difatti, se “la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida” (così espressamente nella circ. INAIL n. 22 del 2020), è evidente come l’aggiornamento dei protocolli – e, segnatamente, l’introduzione della possibilità per i datori di lavoro di organizzare piani vaccinali aziendali con l’ausilio dell’INAIL e del Servizio Sanitario Nazionale – pone in capo al datore di lavoro una serie di nuovi oneri per la sicurezza del personale, anche in assenza di uno specifico obbligo vaccinale in capo ai lavoratori. In altri termini, a partire dall’adozione del nuovo “Protocollo nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all’attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro”, si può ipotizzare una responsabilità datoriale per contagio avvenuto in occasione di lavoro in tutte le circostanze nelle quali non siano almeno state avviate le procedure necessarie per consentire ai lavoratori di vaccinarsi, in quanto ciò costituirebbe una condotta colposa in relazione ad obblighi di comportamento “suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto” (Cass. n. 3282/2010).
Il contagio da Covid-19 è stato equiparato dall’INAIL all’infortunio in itinere e, sino ad ora, non si riscontravano particolari problemi interpretativi in merito all’esonero dal computo per l’andamento infortunistico dell’impresa – con conseguente invarianza del premio assicurativo – in tutti i casi in cui non vi fosse responsabilità del datore di lavoro.
La posizione espressa dal legislatore si pone in controtendenza rispetto all’apparato di natura strettamente assicurativa che regge le prestazioni INAIL, poiché è chiaro che il contagio in occasione di lavoro – e, in particolare, quello occorso sul luogo di lavoro – è correlato in qualche modo all’organizzazione aziendale, sia pur laddove il datore di lavoro abbia rispettato i protocolli. In una situazione del tutto eccezionale come quella derivante dalla pandemia da Covid-19, è del tutto comprensibile una deroga al principio assicurativo, ma il rischio concreto è che il prolungarsi dell’emergenza abbia delle conseguenze eccessivamente onerose per le imprese, specialmente in un’ottica di redistribuzione dei costi delle prestazioni – che “vengono ripartiti secondo principi di mutualità, mediante forme di “caricamento” indiretto in sede di determinazione dei tassi medi di lavorazione” (L. Mannarelli, L’infezione da SARS-CoV-2 in occasione di lavoro, in V. Filì, Covid-19 e rapporto di lavoro, in D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì, F. Seghezzi, Welfare e lavoro nella emergenza epidemiologica, ADAPT e-book, 2020, n. 89, p. 121) – anche per quelle che hanno sospeso le attività per tutta la durata dell’emergenza pandemica, per cui il vantaggio dell’esonero dal computo nel bilancio infortunistico dell’impresa sarebbe solo apparente. Questa configurazione sposta ancora di più l’ago della bilancia nell’equilibrio tra componente assicurativa e solidaristica nelle prestazioni di sicurezza sociale, in quanto se l’accertamento del contagio sul posto di lavoro segue nella maggior parte dei casi criteri presuntivi e la malattia-infortunio è esclusa dal computo aziendale ai fini del malus, il “gravame sulla gestione assicurativa” richiamato dal secondo comma dell’art. 42 del decreto-legge n. 18 del 2020 dev’essere inteso come un chiaro rimando alla mutualità che sta alla base dell’assicurazione pubblica contro gli infortuni sul lavoro.
Tuttavia, l’art. 4 del decreto-legge n. 44 del 2021 non dispone soltanto un obbligo in capo al lavoratore (che, anzi, potrebbe considerarsi indiretto, in quanto non è prevista né una vaccinazione “coatta” né una sanzione ulteriore rispetto alla sospensione dalle attività a rischio di contagio), ma anzi, in tutte le attività che riguardano l’erogazione di servizi di cura ed assistenza (il legislatore fa espresso riferimento agli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali pubbliche e private) è il datore di lavoro ad essere soggetto ad obblighi ulteriori. Ciò comporta la possibilità di un aumento dei casi nei quali si potrebbe accertare una responsabilità datoriale e, di conseguenza, l’infortunio dovrebbe essere computato nel bilancio infortunistico dell’impresa.
Alessio Caracciolo
Assegnista di ricerca
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia