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Bollettino ADAPT 3 aprile 2023, n. 13
Hanno giustamente conquistato le prime pagine dei giornali e delle cronache televisive alcuni recenti episodi di sfruttamento sistematico e pervasivo del lavoro nella logistica e nella cantieristica navale.
Ad impressionare, questa volta, non sono tanto i numeri dei lavoratori coinvolti, in prevalenza stranieri, individuati dalla Guardia di Finanza nell’ordine delle migliaia di unità. Questo, quantomeno, se si pone mente alle abnormi dimensioni del lavoro sommerso e delle unità di lavoro irregolari presenti, da decenni, nel nostro Paese e oggi stimate dall’ISTAT nell’ordine di 3 / 3,5 milioni. Ciò che colpisce è, se mai, che a fare ricorso a questi sistemi organizzati non siano faccendieri e datori di lavoro improvvisati ma colossi della imprenditoria nazionale ed europea.
Le vicende in questione, dal punto di vista legale, sono solo agli inizi e sarà la magistratura, in tempi non brevi, a fare chiarezza sulla realtà dei fatti assurti alle cronache nazionali rispetto a quanto prospettato dalla Guardia di Finanzia. Parliamo di milioni di euro che sarebbero stati “risparmiati” dalle aziende in questione mediante flussi reddituali largamente inferiori al dovuto e non sottoposti a imposizione fiscale e contribuzione. Lo schema è il solito e cioè appalti e subappalti a cooperative fittizie e società affidatarie disponibili a svolgere il ruolo di prestanome, con la “transumanza di manodopera da una cooperativa all’altra” per eludere i controlli (scrivono i magistrati), e con il solo obiettivo di risparmiare sul costo del lavoro, occultare infortuni sul lavoro e, in generale, abbattere in modo sistematico gli standard di tutela di legge e di contratto collettivo che sarebbero spettati ai lavoratori coinvolti.
Poco pare cambiato rispetto a quanto emergeva dagli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori, istituita nel lontano 1955 con deliberazioni della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, al fine di svolgere una inchiesta sulle condizioni dei lavoratori delle aziende, e in particolare sulla applicazione della legislazione a tutela della salute dei lavoratori, sul rispetto dei contratti, sulle condizioni morali e umane nei luoghi di lavoro. E poco dunque ci possiamo attendere, anche alla luce delle modestissime risorse economiche di cui dispone, dalla nuova Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro istituita nei giorni scorsi dal Senato della Repubblica (vedi la delibera del 23 marzo, in GU Serie Generale n. 74 del 28-03-2023, e ivi, in particolare, l’art. 8 con riferimento alle spese di funzionamento).
Ben presto queste clamorose vicende usciranno dal radar dei media nazionali e della opinione pubblica e continueremo a discutere in sede tecnica delle possibili soluzioni giuridiche e sanzionatorie utili per arginare un fenomeno che pare sempre più dilagante.
Le opinioni, come sappiamo, sono invero molto diverse e tutte condizionate dalla spada di Damocle della globalizzazione che, secondo taluno, giustificherebbe se non queste pratiche quantomeno un abbattimento delle tutele del lavoro pena la desertificazione del nostro tessuto imprenditoriale. Anche in questo caso c’è dunque poco da attendersi in un Paese come il nostro che, nei fatti, ha sempre tollerato un caporalato diffuso (pensiamo alla raccolta dei pomodori in agricoltura o alla lavorazione della carne nella industria alimentare), fatto di cooperative fittizie e subappalti poco o nulla trasparenti, senza riuscire ancora ad accettare, sul piano culturale e spesso anche operativo, il ricorso alle agenzie autorizzare di fornitura professionale di manodopera che pure sono obbligate per legge a riconoscere ai lavoratori parità di trattamento economico e normativo rispetto ai lavoratori della impresa utilizzatrice. Se poi il problema è la complessità della busta paga italiana, vera anomalia nel confronto comparato, anche qui sappiamo di toccare un tabù perché di questa complessità e inaccessibilità dei dati in essa contenuti ci vivono in molti alimentando posizioni di potere e anche di rendita.
Come studiosi e come operatori del diritto – nel caso di chi scrive anche come presidente di una commissione di certificazione universitaria (quella del centro studi modenese DEAL) – non resta allora che porci una domanda di fondo che non può più a lungo essere elusa solo perché scomoda e che riguarda tutti noi. Ma quale ruolo e quale responsabilità hanno avuto in tutte queste vicende e in altre ancora, che non leggiamo sulle cronache solo perché di impatto sociale parcellizzato ma non meno significativo (pensiamo alla diffusione dei “contratti pirata”), quei consulenti legali – se non anche, appunto, le commissioni di certificazione dei contratti di lavoro – che hanno confermato alla dirigenza aziendale (che forte di un autorevole parere legale si è ritenuta deresponsabilizzata) la tenuta giuridica e cioè la praticabilità di certe scelte organizzative “patologiche” tenute in piedi grazie a cavilli formalistici ed espedienti interpretativi volti unicamente a tutelare la forma a discapito della sostanza?
Il punto qui sollevato tocca questioni etiche e giuridiche particolarmente complesse che non possono certo essere sviluppate in questa sede. Quel che pare certo, tuttavia, è che prima di pensare all’ennesima modifica del quadro legale si debba iniziare a riflettere seriamente sull’esistente, partendo da chi ha il compito (e la responsabilità) di adattare alla realtà e far vivere nella prassi queste previsioni normative.
Da questo punto di vista un ruolo centrale dovrebbe essere assunto dai codici deontologici (oggi davvero pura forma) e dagli ordini professionali chiamati a riprendere concretamente la loro attività di vigilanza attiva sull’operato dei professionisti appartenenti al singolo ordine. Perché, se è chiaro che il professionista risponde all’interesse di chi lo compensa, è però altrettanto vero che gli interessi che deve soddisfare non devono collidere con i diritti dei terzi, compresi quelli di altri professionisti che non si prestano a operazioni di dubbia tenuta giuridica e moralità, né tantomeno con gli interessi pubblici (nel caso, la legalità e il rispetto della concorrenza, anche nel mercato del lavoro).
Nella stessa prospettiva sarebbe al tempo stesso opportuno capire a che punto siamo oggi, a venti anni esatti dalla entrata in vigore della Legge Biagi, con la certificazione dei contratti di lavoro e di appalto. Questo non solo perché la certificazione è finita, in non pochi casi, nelle reti di enti bilaterali istituiti da organizzazioni sindacali e datoriali poco o per nulla rappresentative. Più ancora non si può infatti sottacere la circostanza che spesso, soprattutto là dove si risolva in verifiche astratte fatte solo sulla carta, senza sopralluoghi e senza contatto anche coi lavoratori interessati dai procedimenti, la certificazione si sia nei fatti tradotta in un puro formalismo. Un mero espediente tecnico utile a garantire non la reale genuinità degli schemi giuridici analizzati ma solo la posizione del contraente forte a scapito dei lavoratori coinvolti.
Michele Tiraboschi
Università di Modena e Reggio Emilia
Coordinatore scientifico ADAPT