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Bollettino ADAPT 4 ottobre 2021, n. 34
71 anni dopo la Francia, 22 anni dopo la Gran Bretagna, 6 anni dopo la Germania, l’ora del salario minimo sembra arrivare anche in Italia. E’ dal 2018 nei programmi di governo, e risuona sempre più anche a livello internazionale: l’Unione Europea prepara una direttiva, negli USA si sono moltiplicate le campagne locali per salari minimi e Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo per un salario minimo di 15$ nel settore pubblico. Il fascino del salario minimo non è circoscritto alla sinistra. In Gran Bretagna del “National Living Wage” (originariamente uno slogan dei movimenti sociali) si appropriò il ministro delle finanze conservatore George Osborne, già paladino dell’austerità, cambiando il nome al salario minimo britannico e proponendone aumenti che ne avrebbero dovuto fare il più alto in Europa (ma non ci arrivarono, complice la Brexit e il cambio di governo).
I motivi di popolarità del salario minimo, in società con diseguaglianze crescenti e dove la legislazione del lavoro e la protezione sociale hanno falle evidenti, sono chiari. È semplice e immediatamente efficace, al contrario di tante politiche del lavoro. Efficace non solo sulla povertà salariale in generale, ma anche contro forme di diseguaglianza particolarmente insopportabili, come il gender pay gap tra uomini e donne. E nonostante una mole enorme di ricerche, negli Stati Uniti e altrove, non risultano (es. dalla rassegna da parte dell’ILO) particolari effetti negativi sull’occupazione, neanche a livelli relativamente alti, al contrario di cosa prevederebbe una visione economicistica del lavoro come semplice merce.
Eppure, una domanda frequente in Italia è come mai proprio i sindacati, le organizzazioni finalizzate alla difesa e promozione delle condizioni di vita di lavoratori e lavoratrici, siano scettici, o addirittura contrari. Come spiegare il paradosso di una misura contro i bassi salari, sostenuta addirittura dai conservatori thatcheriani inglesi, ma osteggiata dai sindacalisti italiani? Viene lecito sospettare che abbiano davvero tradito la loro funzione, diventando una “casta”. Ma a ben guardare, la posizione dei sindacati italiani non è anomala nella storia dei movimenti operai europei. E ha alcune motivazioni aggiuntive legate alla specificità italiana. Si collega a tensioni di fondo sul modo di pensare la regolamentazione del mercato del lavoro. Per capirlo serve uno sguardo più attento ai dettagli delle esperienze internazionali e storiche. Forse, quello che conta di più, non è se avere il salario minimo, ma come.
Le esperienze internazionali
Il salario minimo esiste nella grande maggioranza dei paesi industrializzati: in 22 su 27 nel’UE, e in tutti gli altri paesi OCSE. In alcuni paesi da tanto tempo, al punto di essere dato per scontato. Ma concentriamoci sulle eccezioni: i paesi che lo hanno introdotto solo recentemente e quelli che ancora non lo hanno. Sorprendentemente, proprio in questi paesi i sindacati hanno mostrato scetticismo e ostilità, un po’ come da noi.
Iniziamo dalle venerabili trade unions inglesi. L’esempio storico di “volontarismo” delle relazioni industriali, di sviluppo spontaneo dei sindacati dal basso, non per volontà di partiti o governi. Qui i sindacati fin dall’inizio hanno mostrato una fortissima diffidenza verso l’intervento statale. Per delle associazioni operaie della fine dell’800, lo stato era la polizia che reprimeva i loro scioperi e i giudici che, in linguaggio e accento aristocratici incomprensibili, usavano la common law contro di loro. Col tempo riconobbero l’importanza della legislazione, crearono il loro partito, il Labour. Ma la diffidenza non scomparve mai: i lavoratori potevano migliorare le loro condizioni solo da soli, organizzandosi, scioperando, negoziando nei luoghi di lavoro. Della legge meglio non fidarsi, perché comunque verrebbe interpretata da giudici percepiti, ancora negli anni ‘70, come della classe avversaria, e perché i governi possono comunque ritirare qualsiasi concessione in ogni momento. Un salario minimo sarebbe stato un regalo avvelenato, per smobilitarli nei luoghi di lavoro e, una volta indeboliti, ridurre il salario reale con l’inflazione. Per lo stesso motivo osteggiarono anche gli inizi della legislazione sociale europea. Ci volle l’attacco frontale da parte di Margaret Thatcher per cambiare posizione: demolita la contrattazione settoriale, non bastavano più le proprie capacità negoziali. A cavallo del 1990 abbracciarono sia l’UE che l’idea di salario minimo, che fu introdotto non appena i laburisti tornarono al governo. Ma sindacalizzazione e copertura contrattuale continuarono a diminuire anche sotto i laburisti: il salario minimo non le aiutò. E anche se continuò a crescere, il salario minimo fu più tardi tolto dal loro controllo (tramite la Low Pay Commission istituita da Tony Blair) proprio da George Osborne con il National Living Wage nel 2015. Il salario minimo era tra i diritti individuali dei lavoratori su cui si concentrò il governo Blair trascurando invece quelli collettivi (rappresentanza, partecipazione in azienda, contrattazione, sciopero): l’insufficienza dei primi per alcuni (come Anna Pollert che li definì “tigri di carta”) spiega perché quel mercato del lavoro rimanga un unicum in Europa occidentale quanto a insicurezza e diseguaglianza.
I sindacati tedeschi hanno seguito un’evoluzione simile in un contesto politico diverso. Qui la Tarifautonomie, l’autonomia della contrattazione e quindi il non intervento dello stato nella regolamentazione delle condizioni di lavoro, era un baluardo non solo contro gli spettri del totalitarismo, ma anche contro le politiche economiche endemicamente restrittive dei governi del dopoguerra. Ma con la femminilizzazione e terziarizzazione del mercato del lavoro a cavallo della fine del XX secolo, si accorsero che la loro apparentemente robusta contrattazione di settore, pur difendendo bene il nocciolo delle industrie principali, lasciava scoperte fasce crescenti della società. La copertura contrattuale continuava a abbassarsi, soprattutto nell’Est. Così, a partire dal sindacato dei servizi Ver.di, iniziarono a cambiare posizione e chiedere salari minimi legali, prima a livello settoriale e regionale nei contesti con alta presenza di lavoro immigrato e “distaccato”, poi a livello nazionale. Il sindacato più forte, IG BCE del settore chimico e minerario, rimane contrario fino a oggi, ma la confederazione DGB accettò l’idea, che fu introdotta nel 2015. Ma fu introdotta con un ruolo istituzionale dei sindacati nella negoziazione degli aumenti, e con un contestuale rafforzamento della legge sull’estensione erga omnes dei contratti collettivi (che pur rimane rara in Germania). Ciononostante, uno studio recente ha riscontrato un lieve effetto negativo dell’introduzione del salario minimo sulla propensità delle aziende nei settori più deboli a sottoscrivere i contratti collettivi di settore.
In Scandinavia e in Austria invece di salario minimo non si parla ancora. Questi sono i paesi coi sindacati più forti d’Europa, per i quali il salario minimo legale sarebbe un esautoramento. In Austria hanno di fatto un sistema di estensione erga omnes dei contratti, mentre i sindacati nordici hanno di fatto ancora la forza di costringere tutti i datori di lavoro al rispetto dei contratti tramite scioperi di solidarietà e boicottaggi. La parziale eccezione è la Norvegia, dove la copertura contrattuale è più bassa e in presenza di forte immigrazione sono stati introdotti salari minimi in alcuni settori – ma anche lì i sindacati sono insoddisfatti di come, concentrandosi sul salario minimo, gli altri, altrettanto importanti aspetti contrattuali siano finiti ignorati. I sindacati nordici si oppongono anche fermamente all’idea di una direttiva sul salario minimo europeo, che pensano diluirebbe la loro forza negoziale; posizione che cozza con le aspirazioni di molti altri sindacati europei, ma che a loro appare logica: è da soli, senza bisogno di leggi, che sono riusciti a creare i mercati del lavoro più egualitari del mondo. Mentre in altri paesi (es. Spagna, USA, Europa centro-orientale) il salario minimo, una volta istituito, è rimasto spesso congelato e, in mancanza di forte contrattazione collettiva, insufficiente a evitare il lavoro povero. Questi effetti negativi non sono inevitabili: in Francia il livello relativamente alto dello “SMIC” è tradizionalmente visto come causa della debolezza della contrattazione, ma in Germania l’introduzione del salario minimo del 2015 è coincisa con una ripresa della sindacalizzazione.
Insomma, i sindacati più forti, in particolare in paesi socialdemocratici o neocorporativi, hanno tradizionalmente resistito all’idea di salario minimo fino a che non si sono resi conto di non potercela più fare da soli: in Gran Bretagna 30 anni fa, in Germania dieci anni fa, in Scandinavia e Austria non ancora. In Italia forse il momento del rendiconto sta arrivando.
La specificità italiana
L’Italia, un po’ per scelta e un po’ per caso, condivide l’autonomia della regolamentazione delle condizioni sostanziali di lavoro con i paesi del Nord Europa: di salari, inquadramenti e orari se ne occupano sindacati e organizzazioni imprenditoriali, non parlamento e governo. Quando nel 1997 il governo Prodi, su domanda di Rifondazione Comunista, lavorò a una legge sulle 35 ore (come contemporaneamente stava facendo il governo socialista francese), uno dei motivi per cui questa si arenò fu la mancanza di sostegno sindacale. Gli orari erano per entrambe le parti sociali materia contrattuale, non legislativa, e per i sindacati italiani il modello non era la Francia ma la Germania, dove IG Metall le 35 ore le aveva già ottenute nel 1985 via contratto, e una legge sull’orario, se non fosse stato per la direttiva europea del 1993, non sarebbe neanche esistita.
C’è un episodio importante delle relazioni industriali italiane che, a posteriori, rafforza lo scetticismo di alcuni sindacati verso interventi centrali. L’accordo Lama-Agnelli del 1975 sul punto unico di contingenza fu visto, all’epoca, come una grande conquista sindacale, che unificava e automatizzava a livello nazionale gli aumenti salariali in modo egualitario. Ma anni dopo Aris Accornero lo indicò come la causa dell’invertirsi della “parabola” che contraddistinse l’esperienza sindacale italiana di quegli anni: dopo anni di rapida crescita, il sindacato si smobilitò e indebolì perché la sua funzione principale, negoziare i salari, era stata marginalizzata dalla (generosa) centralizzazione legislativa degli aumenti. Secondo quell’interpretazione il vero vincitore dell’accordo scala mobile era stato non Lama ma Agnelli, che poté presto passare al contrattacco. Allo stesso modo, si può temere che diventi più difficile sindacalizzare e mobilitare i lavoratori senza l’importante ricorrenza dei rinnovi contrattuali sui minimi salariali.
Ma in Italia c’è anche un problema istituzionale unico. Non esiste (al contrario di paesi come Francia, Spagna, Belgio, Olanda) una legge sulla validità erga omnes dei contratti collettivi, ma solo un orientamento giurisprudenziale consolidato che impone il rispetto dei minimi salariali contrattuali, prendendoli come indicatori della retribuzione “sufficiente” e “proporzionata” cui l’art. 36 della Costituzione dà diritto. Se esistesse un salario minimo legale, questo orientamento potrebbe cambiare: il salario minimo sarebbe, quasi per definizione, quello “sufficiente” (la faccenda è piú complicata col “proporzionato”) e quindi diverrebbe difficile imporre anche l’obbligo di rispettare i minimi salariali contrattuali. Anche a un livello relativamente alto come i 9€ proposti dal disegno di legge Catalfo, il salario minimo sarebbe più basso dei minimi contrattuali di tantissime categorie, dagli edili alle infermiere, così che potrebbe divenire legale pagarli meno. I disegni di legge attualmente in discussione anticipano questo problema includendo norme per l’obbligatorietà dei minimi contrattuali ove questi siano più alti, ma con l’attuale giungla contrattuale italiana e in assenza di una legge sulla rappresentanza, potrebbe essere un campo minato riuscire, in sede legale, a evitare che vengano considerati come riferimento contratti ai livelli del salario minimo.
Ci sono altri timori. Se diventasse sufficiente pagare il salario minimo per adempiere ai propri obblighi legali, molte aziende potrebbero perdere il motivo principale per seguire i contratti collettivi nazionali. Ma questi non regolano solo i salari ma molti altri importantissimi aspetti, dall’inquadramento agli orari, dalla formazione alla sicurezza. Una conquista importante per i lavoratori meno pagati potrebbe accompagnarsi a molteplici perdite per tanti altri. Da qui la domanda sindacale di fare le cose in ordine: prima una legge su rappresentanza e contrattazione e solo (subito) dopo il salario minimo.
Il nodo applicazione
La regolamentazione del lavoro in Italia presenta più lacune che altrove. L’informalità e l’illegalità caratterizzano ampi settori, soprattutto in alcune regioni, e si presentano come una palla al piede ai tentativi di miglioramento degli standard lavorativi. Le aziende che oggi non rispettano i minimi salariali con ogni probabiilità tenteranno anche di non rispettare il salario minimo. In una ricerca recente, ho studiato come e perché molte aziende inglesi, a vent’anni dall’introduzione del salario minimo, si rifiutino di applicarlo. Improbabile che quelle italiane invece reagiscano a una legge sul salario minimo convertendosi alla regolarità.
Ciononostante, il salario minimo legale ha alcuni vantaggi, grazie proprio alla propria semplicità. L’informazione è molto più chiara che sulla nebulosa dei contratti: nei miei studi di lavoratori migranti in Inghilterra ho trovato spesso che l’unico diritto che conoscevano era proprio il salario minimo. Ma anche i controlli sono più semplici. In Gran Bretagna sono svolti in modo automatico dall’agenzia delle entrate, che può immediatamente segnalare retribuzioni non corrispondenti al salario minimo, pur se il controlo delle ore effettive richiede l’opera molto più difficile degli ispettorati. Su questo fronte la paura sindacale rimane quella dell’eventuale effetto collaterale di indebolimento delle rappresentanze sindacali e della loro funzione di controllo.
Cambiamento di modello?
L’autoregolazione da parte di sindacati e organizzazioni imprenditoriali si indebolisce in gran parte delle economie industrializzate, e negli ultimi decenni è stata in parte rimpiazzata dalla regolamentazione statale. Il caso del salario minimo tedesco ne è un esempio lampante. L’autoregolazione nella sua forma “neocorporativa” ha mostrato molti limiti: sclerosità, burocratizzazione, mancanza di risposte a nuove identità lavorative. Ma quella legislativa ne ha altri. Prescidere dalle relazioni nel luogo di lavoro, e quindi dai rapporti di forza e dai canali di dialogo, per affermare dei diritti vuol dire non poterli coniugare all’enorme varietà di condizioni lavorative e di bisogni a loro associati. Questo vale anche per i datori di lavoro: le relazioni coi sindacati possono essere gravose ma sono ben note, prevedibili, comprensibili, al contrario della volontà del legislatore, soprattutto in tempi di “populismi”. Anche un’organizzazione tendenzialmente liberale come l’OCSE nei suoi studi più recenti raccomanda la contrattazione collettiva come metodo preferibile sia per l’equità che per l’efficienza.
Il timore dei sindacati, non solo italiani, è che la via legislativa li sostituisca. Non si tratta solo di istinto di autopreservazione organizzativa. Coi sindacati svuotati di una loro importante funzione, l’organizzazione nei luoghi di lavoro si indebolirebbe col rischio che i diritti individuali rimangano di carta. Potrebbero adattarsi e fare del salario minimo un oggetto di mobilitazione. Ma la storia e la logica dell’azione collettiva suggeriscono ai sindacati che sia più difficile organizzare su temi così ampi, anziché a partire dal luogo di lavoro.
Questi timori rischiano di spingere i sindacati a difendere l’esistente, in una situazione in cui questo continua a franare. Ma l’idea per i lavoratori il modo più sicuro per avanzare i propri diritti sia tramite l’auto-organizzazione e la contrattazione, anziché la delega a governi o commissioni, ha un serio radicamento nella storia dei movimenti dei lavoratori, soprattutto quelli più forti. Strumenti istituzionali come norme su rappresentanza, validità erga omnes, e un ruolo centrale nella negoziazione del salario minimo stesso, possono aiutare a pensare un salario minimo legale che non abbandoni, ma valorizzi quell’idea.
Guglielmo Meardi
Ordinario di sociologia dei processi economici e del lavoro
Scuola Normale Superiore