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Bollettino ADAPT 30 novembre 2020, n. 44
Gli importanti passi in avanti registrati ieri al tavolo del contratto della metalmeccanica, e le non banali difficoltà che ancora non consentono di raggiungere una intesa, consentono di ripensare in termini concreti alla recente proposta di direttiva europea sul salario minimo. Una proposta che ha riportato al centro del dibattito pubblico, non solo nazionale, il nodo dei trattamenti salariali che è una parte importante, se non decisiva, rispetto alle prospettive di rilancio del nostro Paese. E che tuttavia, come appunto dimostra la distanza ancora esistente tra i firmatari dell’accordo della meccanica, non può essere banalizzato nei termini della fissazione di una tariffa la cui esatta quantificazione dipende essenzialmente, in termini di sostenibilità, da un delicato equilibrio fatto di valori professionali, compatibilità economiche e istanze di protezione espresse anche attraverso il welfare aziendale che solo le parti di una trattativa sono in grado di definire con precisione. Nessuno nega che esista, in Italia più che altrove, una questione salariale. Altra cosa, tuttavia, è capire se aggredirla alla radice, dal lato delle sue cause più profonde, oppure in termini meramente redistributivi. Parlare di retribuzioni nette dei lavoratori impone insomma di discutere anche dell’annoso problema della produttività e con esso della pressione fiscale che grava sul costo complessivo del lavoro.
D’altro canto è vero che stiamo parlando, per ora, di una semplice proposta, peraltro non particolarmente gradita ad alcuni Stati membri della Unione. E comunque resta forte il rischio, almeno in Italia, di considerare con una certa sufficienza questo primo documento, come accaduto per tante altre iniziative provenienti dalla Europa e, al più, come una generica dichiarazione di principio.
L’impressione, tuttavia, è che qualcosa si stia muovendo per davvero e anche velocemente. Non è forse un caso che, all’indomani della sua approvazione, Nunzia Catalfo e Yolanda Díaz, i Ministri del lavoro di Italia e Spagna, abbiano pubblicato su due autorevoli quotidiani dei rispettivi Paesi una sorta di manifesto celebrativo della proposta. Quasi come se non si aspettasse altro che questa iniziativa comunitaria per smuovere le acque dei rispettivi dibattiti nazionali che, con crescente fatica, cercano di prendere le misure coi sempre più complessi problemi del lavoro e con un dialogo sociale che procede a fasi alterne, decisamente meglio in Spagna che in Italia dove è ridotto al lumicino.
Il tema non è certo nuovo. Fin dalle prime bozze del Jobs Act è entrato con forza nel dibattito italiano, nel pieno della stagione della disintermediazione e della proclamata autosufficienza della politica rispetto alle istanze dei corpi intermedi, per vedere poi presentate, negli ultimi anni, diverse proposte di legge. Una di queste iniziative legislative porta proprio come prima firma quella del Ministro Nunzia Catalfo. Il fatto che la Commissione Europea rilanci il tema con una direttiva, e non con semplici raccomandazioni, potrebbe essere un ulteriore strumento nelle mani del governo che non ha mai nascosto di volersi muovere in questa direzione, pur di fronte alla contrarietà della maggioranza delle parti sociali. Non che la direttiva obblighi ad andare nella direzione di un salario minimo stabilito per legge e neppure impone, in alternativa, di dotare i contratti collettivi di efficacia erga omnes magari con una legge sulla rappresentanza in attuazione del precetto di cui all’articolo 39 della Costituzione. E tuttavia questo non esclude iniziative in tal senso almeno secondo le parole del Ministro che, nel citato “manifesto”, dove un rituale richiamo al ruolo del dialogo sociale, precisa che servono oggi «adeguati meccanismi per la determinazione dei salari minimi» come a dire che la contrattazione collettiva non svolge questo ruolo in Italia. Dire poi, come fa sempre il Ministro, che «la contrattazione ne beneficerà in termini di campo d’azione» fa bene capire dove si andrà a parare nella direzione cioè di un intervento sulla efficacia giuridica dei contratti collettivi.
Ed è qui che è possibile individuare il principale nodo politico sollevato dalla proposta di direttiva europea che non è solo il tema del salario minimo ma quello della persistente efficacia del metodo delle relazioni industriali, e cioè della rappresentanza e della contrattazione, a determinare il valore economico di mercato dei mestieri nei diversi settori produttivi. Il nodo è capire se questo metodo è superato, e con esso l’autonomia contrattuale dei corpi intermedi, o il problema è un altro. In parte interno alle dinamiche intersindacali (i livelli di contrattazione e il nodo della produttività) e in parte condizionato dal troppo elevato cuneo fiscale, da una estesa area di economia sommersa e dal proliferare di accordi sottoscritti da attori non rappresentativi almeno se comparati a quelli firmati da Confindustria e dalla triplice almeno per il settore industriale.
I sostenitori del salario minimo legale vedono nella sua introduzione una comoda soluzione del problema che è però anche una scorciatoia perché non affronta il problema dei bassi salari dal lato della riforma fiscale e da quello della contrattazione di produttività. Chiaramente questo sarebbe anche un duro colpo per la rappresentanza e non è forse malizioso pensare che una parte dei sostenitori della soluzione legale in fondo pensi che proprio la rappresentanza, in quanto libera e quindi difficilmente controllabile, sia un elemento di instabilità che contribuisce a una non perfetta governabilità del mercato del lavoro. Una tesi che rifiutiamo in toto ma che vede nella inazione degli attori della rappresentanza rispetto al problema della contrattazione pirata e del decentramento contrattuale una delle cause principali.
La difesa della rappresentanza su questo fronte infatti oggi si gioca soprattutto a livello culturale, come garanzia del principio della autonomia collettiva e del valore del suo pluralismo, ma è difficile non essere critici nell’osservare quanto non sia stato fatto in questi anni facendo così il gioco di chi vuole scavalcarne il ruolo. Così ci troviamo di fronte al rischio di gettare il bambino con l’acqua sporca. Infatti, come mostrano i duri dibattiti in merito ai rinnovi di questi mesi, che ruotano proprio sul trattamento economico minimo, la contrattazione collettiva è spesso ridotta alla dimensione salariale, ma porta con sé molto altro. E eliminando il problema dei trattamenti minimi finiremmo per rischiare di mettere in secondo piano anche tutti gli altri istituti che i contratti regolano, spesso ancor più importante del salario. Minimi che non possono essere letti come autonomi dagli inquadramenti, ad esempio, come mostra la sfida lanciata da Federmeccanica ai sindacati ieri.
Per questo, non negando i ritardi delle parti sociali, riteniamo che sia importante oggi identificare il valore che la contrattazione collettiva può avere all’interno delle sfide complesse che siamo chiamati ad affrontare. Con la consapevolezza, al tempo stesso, che è tempo di dare vita a una contrattazione che apra finalmente a qualunque livello ritenuto appropriato (nazionale, territoriale e aziendale) a una misurazione economica del valore del lavoro centrata sulla professionalità e le competenze e non più semplicemente sull’ora-lavoro come avvenuto nel secolo scorso.
Presidente Fondazione ADAPT
Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@MicheTiraboschi
*pubblicato anche su Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2020