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Bollettino ADAPT 20 dicembre 2021, n. 45
Il movimento sindacale italiano sta cercando di riscoprire la sua identità. Potrebbe essere questo l’unico punto di sintesi tra tutti i commenti circolati sui media nazionali e la stessa comunicazione sindacale circa lo sciopero generale messo in campo giovedì 16 dicembre scorso da Cgil e Uil e la manifestazione svolta due giorni dopo dalla Cisl.
È vero che sul piano mediatico l’esito dello sciopero è stato quello del tradizionale contrasto sui livelli di adesione, questa volta andato in scena in una versione acuta e prettamente sindacale, ossia con Confindustria al posto delle questure a ridimensionare al 5% la stima dell’80% di partecipazione tra i lavoratori coinvolti dichiarata da parte degli organizzatori (senza che però sia stato fornito il dato del numero di partecipanti totale).
Tralasciamo per un momento i pur fondamentali risultati mediatici, dove ci si divide tra chi parla di flop e di partecipazione di “pochi, svogliati e confusi” (Il Messaggero) e chi parla di “sciopero riuscito”, perché “la vittoria è soprattutto un fatto di percezione e colpo d’occhio” (Il Fatto Quotidiano). Basterebbe lo slogan scelto per l’iniziativa a rendere l’idea di quanto nel profondo il sindacato si percepisca coinvolto dal frangente storico. “Insieme per la giustizia” infatti altro non è che la parafrasi etimologica della parola “sindacato”, ossia il suo significato originario. Certo, la Cisl non ha convenuto sull’utilizzo dello strumento dello sciopero, aspetto che ha inteso sottolineare con la sua comunicazione parlando di “Responsabilità in piazza”. Ma a ben vedere questa scelta è stata comunque funzionale a ribadire la propria identità di portatore di istanze collettive di giustizia, pur dal punto di vista della propria cultura sindacale particolare (non è forse poi un caso che la Fim-Cisl Monza-Lecco-Brianza in occasione del suo congresso di pochi giorni fa abbia scelto proprio lo slogan: “Syn Dike – giustizia insieme possiamo”). Lo ha detto chiaramente il segretario Luigi Sbarra durante il suo discorso: “La posizione identitaria e valoriale della Cisl è quella di un sindacato dell’autonomia, del pragmatismo, del riformismo, della partecipazione, della contrattazione”.
L’iniziativa sindacale dei giorni scorsi ha poi appassionato molto gli editorialisti dei quotidiani nazionali e gli esperti della materia, producendo una notevole quantità di articoli dedicata proprio al suo significato più profondo per il movimento sindacale, ossia la ricerca di un ruolo politico che emerge dall’ampio ventaglio di motivazioni comunicate.
D’altronde si è trattato, secondo i più, di uno sciopero generale sui generis venato di contraddizioni: uno sciopero “monco” (Colombo, Huffingtonpost.it) o “di minoranza” (Di Vico, Corriere) viste le categorie esentate. E comunque uno sciopero “morbido” (uno sciopero “e però”, Caruso, Il Foglio) visto che i rapporti con il governo non si sono mai interrotti, che il presidente del Consiglio Draghi è stato tenuto fuori dalla contesa dagli stessi sindacati e soprattutto visto che questa volta non si scioperava nemmeno contro misure viste con particolare favore dalle imprese, le cui organizzazioni di rappresentanza si sono dichiarate in larga parte insoddisfatte della manovra (nel 2014 lo sciopero generale di Cgil e Uil era indirizzato invece anche contro quel Jobs Act che l’allora presidente di Confindustria aveva battezzato come la “realizzazione di tutti i sogni” di viale dell’Astronomia).
Se è indubbio che nelle società contemporanee potere politico e potere comunicativo siano irrimediabilmente intrecciati, il fatto che i sindacati abbiano voluto sacrificare la purezza del loro strumento più potente su entrambi i piani rende allora chiaro quanto urgente fosse iin questo frangente per Cgil e Uil ribadire di essere rappresentanti di istanze sociali generali e di voler incidere concretamente nei processi di formazione delle norme. A prescindere dai risultati raggiunti e dai giudizi di opportunità, si è trattato in questo senso di una scelta coerente con la visione politico-sindacale di Cgil e Uil. Così come coerente è stata la scelta della Cisl con i suoi valori culturali: rinunciare alla ricerca della massima visibilità generale garantita dal conflitto in quanto sindacato innanzitutto degli iscritti e votato alla partecipazione.
Messo in prospettiva, lo sforzo del sindacato per ribadire la sua identità politica più profonda appare logico. D’altronde nel febbraio 2019 era stato diffuso il giudizio positivo degli intellettuali circa la nuova e propositiva centralità che la triplice e le associazioni datoriali erano riuscite a guadagnare nei confronti della latitante politica economica dello sperimentale governo giallo-verde. Una ripresa, dopo la stagione della disintermediazione professata dal governo Renzi. Caduta la sfida neo-populista, e superata ora anche la fase acuta dell’emergenza sanitaria, ossia momenti che avevano spinto alla convergenza di intenti tra tutte le parti sociali, sindacati e organizzazioni datoriali si trovano a fare i conti con un Governo che non soddisfa, né nel metodo né nel merito, nessuna di loro. Mentre riesce a mettere d’accordo la maggioranza dei partiti. Come a conclamare la dissoluzione o quantomeno l’assottigliamento dei legami tra le rappresentanze del mondo del lavoro e impresa e quelle elettorali.
Ecco allora il senso di una lista così lunga di motivazioni per lo sciopero (ma lunga è anche quella degli obiettivi della manifestazione Cisl), che va ben oltre la riforma delle aliquote Irpef (la quale già si sapeva che non sarebbe stata ulteriormente ritoccata dal Governo) e che assomiglia ad un programma politico: fisco, pensioni, scuola, politiche industriali, delocalizzazioni, precarietà del lavoro, giovani, donne, non autosufficienza.
Venendo poi ai risultati comunicativi, il principale limite di una strategia che persegue una auto-rappresentazione conforme all’ideale identitario, è nell’indeterminatezza della proposta, che viene di conseguenza riflessa dall’informazione mediatica (secondo alcune analisi già particolarmente disinteressata). Con l’effetto che alcuni dei temi più urgenti e che avrebbero aiutato i sindacati organizzatori a ribadire il loro ruolo di soluzione, contro i detrattori che li includono tra i problemi del Paese, non sono filtrati con la necessaria chiarezza ed evidenza nelle sintesi dei media. E hanno quindi lasciato campo aperto alla mera diatriba tra “sciopero riuscito” e “sciopero fallito”. Basti pensare al mancato collegamento tra lo sciopero generale e il tema della sicurezza sul lavoro, tornato con prepotenza nell’agenda informativa nel weekend successivo, ma anche al tema del rapporto tra transizione energetica e impatti occupazionali che nel linguaggio sindacale dovrebbe convergere verso una “just transition”. Certo solo due, ma forse i più importanti, dei tasselli della giustizia del futuro.
Assegnista di ricerca
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia