Riforma della rappresentanza sindacale e nuovi assetti della contrattazione collettiva: non è una buona notizia quella della rottura delle trattative tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil. Potranno sorridere solo quanti, sempre più numerosi, auspicano da tempo una prova di forza da parte del Governo e cioè una legge sindacale, attesa da oltre 60 anni, che metta nell’angolo un sindacato ritenuto non più al passo coi tempi e per questo inutile. Eppure ad essere in gioco non è solo la sorte del movimento sindacale italiano e, di riflesso, la rappresentanza del mondo delle imprese, quanto piuttosto una visione di società nel delicato rapporto tra Stato e persona e tra pubblico e privato.
La dura, e naturale, contrapposizione tra le parti sociali ha condotto l’immaginario collettivo a considerare unicamente due dimensioni dei rapporti tra di esse: il conflitto o l’intesa corporativa. Qualora non si riesca ad ottenere un accordo il risultato è lo scontro senza se e senza ma. La realtà dei fatti è meno bianca e nera e i meccanismi della rappresentanza si giocano proprio in quell’area grigia in cui si costruisce lentamente e minuziosamente un equilibrio che non è spartizione di risorse ma anche una strada possibile per la costruzione del bene comune.
L’urgenza di oggi è capire se possiamo rinunciare a questo lavoro di compromesso o se l’unica soluzione sia quella di delegare al Legislatore ciò che le parti non riescono a concordare.
Non sta a noi valutare le singole decisioni, vogliamo solo porre l’attenzione su alcune conseguenze tra le due opzioni. La particolarità delle relazioni industriali è quella di essere un campo nel quale le parti hanno autonomia decisionale. Lo scopo della rappresentanza è infatti quello di veicolare gli interessi di imprese e lavoratori, garantendo ad essi di esprimere in modo sussidiario i propri interessi. Per questa ragione le regole del gioco sono state decise dalle parti stesse, senza lasciare che un attore esterno, lo Stato, ci mettesse mano.
Un atto di forza da parte del Legislatore dipingerebbe un panorama nuovo e al momento inedito per il nostro Paese. Si verificherebbe una situazione di “sussidiarietà regolata” dall’alto, con il rischio evidente di snaturare le logiche della rappresentanza. L’autonomia privata delle parti non sarebbe certo negata, ma avrebbe uno spazio di manovra all’interno di maglie decise dal Legislatore, non da sé stesso. Con conseguenze non tanto e solamente sul quadro regolatorio quanto sulla loro natura e funzione portando a un predominio dello Stato sulla persona, le sue libertà e responsabilità.
La posta in gioco è quindi alta e va ben oltre le dinamiche contingenti dell’autunno italiano. Noi crediamo che l’autonomia delle parti sociali, il pluralismo e la sussidiarietà non siano solo valori, ma siano condizioni per il radicamento di una concezione di impresa non come luogo del conflitto ma piuttosto come sede di sviluppo della persona grazie al lavoro.
Il discorso si chiarisce prendendo in considerazione il nodo del legame tra salari e produttività del lavoro che sta al centro della rottura di questi giorni tra imprese e sindacati. Le prime non sono più disponibili, in un mercato globale e maggiormente competitivo, a riconoscere un salario fisso ai propri lavoratori. I secondi replicano che, in questo modo, i guadagni di produttività sono ottenuti con il semplice abbassamento dei salari e dei diritti.
Imprese e sindacati hanno al tempo stesso ragione e anche torto perché nella contesa c’è un profilo chiave che stenta a emergere. E cioè oggi le imprese, per ottenere un aumento della produttività, chiedono di fatto al lavoratore di condividere il rischio di impresa, introducendo una sostanziosa componente variabile del salario che dipenderà solo dall’aumento o meno della produttività del lavoro. Rispetto a questa richiesta un punto di incontro ci può essere, almeno per persone di buona volontà, riprendendo la felice espressione di Papa Giovanni XXIII. E cioè riconoscere da parte delle stesse imprese che senza una partecipazione dei lavoratori alla gestione, o quantomeno alla distribuzione di parte degli utili dell’impresa, questi possono solo in parte beneficiare del rischio d’impresa e rischiano anzi di esserne vittime. È quanto da tempo insegna la Dottrina sociale della Chiesa con una visione lungimirante che bene si sposa con i nuovi modi di produrre e lavorare che mettono al centro del processo produttivo la persona e le sue competenze.
Proprio il ruolo della rappresentanza può regolare questo delicato equilibrio, a partire da una condizione: che entrambe le parti siano disposte a condividere l’obiettivo comune della valorizzazione dei lavoratori come condizione per la produttività e crescita economica dell’impresa.
Non è una sfida facile, si tratta per le imprese di abbandonare il modello dell’uomo solo al comando e per i lavoratori di aprirsi ai rischi che le scelte imprenditoriali comportano. Ma è chiaro che decisioni calate dall’alto non potranno mai risolvere una questione che spetta alla buona volontà delle parti. In un mercato globale, solo la contrattazione sul luogo di lavoro e nei territori può costruire un equilibrio tra le esigenze della singola impresa e dei suoi lavoratori. Immaginare regole uguali per tutti a livello di settore, per contro, rischia solo di ingessare un sistema già oggi spesso poco dinamico nella competizione internazionale.
Il futuro è quindi in mano al sindacato e all’impresa, e richiede una scelta netta: o uscire dagli schemi ideologici del Novecento industriale per entrare nella modernità del lavoro o continuare ad ancorarsi ad essi, per essere rapidamente trascinati via dalla corrente del cambiamento, lasciando spazio allo Stato in una battaglia che invece richiede il pieno protagonismo di lavoratori e imprese.
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
Direttore ADAPT University Press
@francescoseghez
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
* Pubblicato anche in Avvenire, 8 ottobre 2015 con il titolo Cogestire la via buona.