Sento da più parti considerazioni contrarie al taglio del limite del contratto a tempo determinato da 36 a 24 mesi. Alcuni sono decisamente contrari, perché di questa flessibilità eccessiva usufruiscono in maniera larga e proficua. È il caso di Confindustria, della cui contrarietà non ci stupiamo. Altri invece, pur con profili diversi, lamentano che questo taglio causerebbe addirittura un aumento della precarietà, perché toglierebbe a molti lavoratori la possibilità di lavorare tre anni di seguito.
I dati ci dicono che questa considerazione è fuori dalla realtà. La durata media dei contratti a termine è inferiore ai sei mesi, e le proroghe vengono utilizzate per tenere i lavoratori nel limbo all’infinito (anche di queste stiamo discutendo). Non è l’anticamera del tempo indeterminato che avevamo immaginato, ma un labirinto dal quale non si riesce a uscire. Nel tempo dell’immediatezza e della necessità imprenditoriale di far seguire azioni istantanee ad ogni oscillazione del mercato, credere che si possa fare a meno della programmazione o che si possa gestire la forza lavoro sempre e solo come un margine, e sempre nella disponibilità del datore, è un errore che le imprese più lungimiranti hanno già imparato a non commettere…
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