L’erede della famiglia Agnelli ha già chiesto scusa e corretto il tiro. Dopo “solo” qualche giorno dal caso di Sondrio e il relativo polverone sollevato dopo l’incontro con gli studenti delle scuole superiori, scopriamo che le frasi di John Elkann erano – a suo dire – un semplice “incoraggiamento”. Il caso, però, è già scoppiato, e ha fatto rumore. Facile riprendere le recenti – e comunque discutibili – dichiarazioni del presidente Fiat sui giovani, per accostarle a polemiche passate che, sullo stesso argomento, hanno visto coinvolte personalità note come i vari Tommaso Padoa-Schioppa (bamboccioni!) Mario Monti (monotonia del posto fisso!), Elsa Fornero (choosy!), Michel Martone (sfigati!), Annamaria Cancellieri (mammoni!), Renato Brunetta (bamboccioni, a volte ritornano). Vero è che le parole di John Elkann, così come le hanno riportate alcuni giornali, sembrano inequivocabili. Secondo RaiNews, ad esempio: “Il lavoro c’è ma i giovani non sono così determinati a cercarlo”. Altri articoli scelgono toni più morbidi. Il Corriere virgoletta: “Nel mercato del lavoro esistono tante opportunità che i giovani non colgono appieno. Temo che ciò avvenga per mancanza di bisogno o per assenza di ambizione”.
La domanda sorge spontanea: è davvero così? Alla luce di dati che danno la disoccupazione giovanile italiana oltre il 40%, si può davvero pensare che “se uno vuole lavorare e si impegna, qualcosa trova?”. Difficile crederci. Tuttavia, domanda e offerta di lavoro non sempre vanno a braccetto e sempre più spesso sentiamo di aziende che vorrebbero assumere ma faticano a trovare il candidato ideale, la persona giusta per il posto giusto. Si aggiunga la crescita dei cosiddetti lavori dimenticati, quelle mansioni alle quali i ragazzi non sembrano più volere aspirare, come la carriera di pasticcere (secondo la Nuvola del Lavoro si conterebbero 600 posti di lavoro vacanti per mancanza di personale qualificato – studi Fipe). E così anche sarti, macellai, panettieri, gelatai ecc. per un totale di almeno 150mila di posti di lavoro vacanti (secondo Fondazione dei consulenti del lavoro).
Resta il fatto che i ragazzi che cercano ma non trovano un lavoro sono troppi. Escludendo chi studia e chi un lavoro ha smesso di cercarlo, sappiamo che i disoccupati tra i 15 e i 24 anni – chi non ha più un lavoro – e gli inoccupati – chi un lavoro non l’ha mai avuto – sono quasi quanti gli stessi giovani occupati, per un totale di 659mila ragazzi. Se prendiamo poi il dato dei disoccupati totali (non solo giovani) le cifre si gonfiano, e di molto, arrivando fino a 3 milioni e 254mila persone senza lavoro. Se ad essi si sommano anche i quasi 3 milioni di persone che il lavoro non lo cercano nemmeno, il risultato è più che allarmante (fonti Istat).
Alla luce di questi dati, non è possibile quindi giustificare le “sentenze” di chi individua nei giovani la causa del loro stesso male, semmai, queste considerazioni, ravvisano delle carenze strutturali di sistema.
Ma non lasciano poi meno perplessi le dichiarazioni di chi cerca di spiegare queste carenze con gli stessi slogan di vent’anni fa. Secondo l’onorevole Laura Boldrini, attuale presidente della Camera dei Deputati, il male, sarebbe da identificare nei contratti flessibili, colpevoli di avere portato a una vera e propria mercificazione del lavoro. Nel suo discorso a Montecitorio del 4 febbraio, dopo aver recepito il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva della XI Commissione ‘Lavoro pubblico e privato’ sulle misure per fronteggiare l’emergenza occupazionale, la Boldrini sostiene: «In Italia, così come nel contesto più ampio dell’Unione Europea, il lavoro sembra essere passato gradualmente da diritto su cui fondare le costituzioni laburiste del dopoguerra, a semplice bene da scambiare o “somministrare” sul mercato. Le imprese non ne hanno beneficiato in termini di competitività. Le maggiori perplessità sulla reale ricerca di soluzioni strutturali vengono dalla sempre più frequente introduzione di contratti flessibili. Che tipo di occupazione hanno creato queste misure?».
La Presidente Boldrini non è la prima, sicuramente, a identificare la flessibilità con la precarietà, l’insicurezza, la mancanza di tutele e di occupazione. Senza andare troppo indietro nel tempo, basta pensare alla legge cosiddetta Fornero, il cui impianto, ha preso le mosse dalla convinzione che per creare un mercato del lavoro dinamico e inclusivo si dovesse esaltare il valore del contratto subordinato a tempo indeterminato come “forma comune” del rapporto di lavoro, mettendo vari paletti all’utilizzo delle forme contrattuali “atipiche”. Ma la Boldrini non si ferma qui sostenendo addirittura che la flessibilità abbia portato a un degrado del concetto stesso di lavoro che da “diritto” diventerebbe “merce di scambio”.
Le forme contrattuali incriminate sono almeno tre: la parasubordinazione, l’esternalizzazione e la flessibilità vera e propria. La loro introduzione viene ricollegata alla legge Biagi, ma esistevano nella realtà del mercato del lavoro già da molto tempo prima e servivano ad assolvere specifiche funzioni collegate a interessi qualificati delle imprese.
Il fenomeno della parasubordinazione – introdotta nel nostro ordinamento da una legge del 1959 e poi consacrata dalla legge del 1973 sulla riforma del processo del lavoro – è stato dominato, per decenni, dalle collaborazioni coordinate e continuative, le famigerate “co.co.co”, che hanno visto una vera “esplosione” nella metà degli anni Novanta. Con l’introduzione della legge Biagi nasce il contratto a progetto, forma contrattuale con cui si prevede la necessaria riconduzione della collaborazione ad un progetto, per arginare l’utilizzo dello strumento in elusione delle norme sul contratto subordinato. Lo scopo iniziale quindi non era introdurre una forma contrattuale con cui sfruttare i prestatori d’opera, ma riconoscere e disciplinare l’esistenza di rapporti di lavoro autonomo connotati da esigenze di tutela analoghe rispetto a quelle dei lavoratori subordinati. Con l’introduzione del contratto a progetto si è tentato, quindi, di normare l’esistente, prendendo atto, però, del fatto che lo strumento era effettivamente utile al mercato.
Quando si parla di esternalizzazione, con riferimento al contratto di lavoro individuale, si intende soprattutto il fenomeno della somministrazione di lavoro, mentre è chiaro che allargando lo spettro all’esame dei rapporti fra imprese, l’appalto è la figura contrattuale che realizza per natura le esigenze di outsourcing. Il contratto di somministrazione di lavoro fa il suo ingresso nell’ordinamento – nella forma del lavoro interinale – nel 1997. L’introduzione della tipologia contrattuale in questione è spinta dal fatto che il nostro ordinamento, anche in questo caso, non era più al passo con i tempi ed era regolato da un legge del 1969 che vietava qualsiasi forma di interposizione di manodopera, e che non era più applicabile ad imprese in evoluzione i cui processi produttivi si smaterializzavano.
Infine, i contratti flessibili, comprendono invece moltissime forme contrattuali tra cui il lavoro a termine, il part time e il lavoro intermittente. Il lavoro a termine esiste da sempre, e il primo intervento che ha tentato di disciplinarne la natura, prevedendo la possibilità di stipulare il contratto a fronte di causali giustificative, è addirittura del 1962. Gli altri due strumenti citati sono sì disciplinati da leggi dei primi anni duemila, ma il loro utilizzo non risponde esclusivamente a esigenze dell’azienda, ma soprattutto a specifiche esigenze dei lavoratori: le donne, che spesso (ma non sempre) scelgono un contratto a orario ridotto per gestire più agevolmente la conciliazione tra vita privata e professionale o i giovani, che optano per prestazioni lavorative, anche di brevissima durata, da conciliare con lo studio.
L’introduzione dei contratti “atipici” in linea di principio non sembra quindi legato alla mercificazione del lavoro. Il lavoro diventa merce quando è sommerso, quando non ci sono garanzie, retributive e contributive, e mancano le tutele. Le leggi che negli anni si sono succedute nella disciplina delle forme contrattuali diverse da quella subordinata a tempo indeterminato hanno riconosciuto e normato fenomeni già presenti nella realtà e che si risolvevano in tentativi di elusione dei divieti esistenti e nel ricorso al lavoro nero. Le forme contrattuali “atipiche” non hanno poi nulla a che vedere con la disoccupazione. Prova di ciò è che ci troviamo di fronte tassi di disoccupazione giovanile in costante aumento a più di un anno dall’introduzione di una legge – la numero 92 del 2012 (la legge Fornero) – che sulla flessibilità in entrata ha attuato una vera e propria stretta.
L’introduzione di una tipologia contrattuale non è, da sola, in grado di creare – né tantomeno di distruggere – opportunità occupazionali. L’occupazione si crea attraverso l’azione condivisa di tutti gli operatori del mercato verso un cambio di paradigma culturale nell’approccio ai temi del lavoro, valorizzandone il riconoscimento della componente formativa e promuovendo la capacità di adattamento ai cambiamenti – tecnologici prima di tutto – dei processi di produzione. Le imprese devono essere messe in condizioni di operare in un mercato competitivo, al passo con l’evoluzione degli scenari internazionali, altrimenti sarà sempre tanto facile quanto inutile rivolgersi a qualcosa (flessibilità) o qualcuno (giovani) da incolpare.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@GattiCasati
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@GiuliaTolve
* Il presente articolo è pubblicato anche in Linkiesta, il 19 febbraio 2014.