Tra sindacato e Confindustria, come ai tempi del fordismo, il giorno dopo ci si confronta sui numeri delle adesioni allo sciopero generale. Da una parte si dice 60%, dall’altra si risponde il 10% perché questa è la quota di lavoratori delle fabbriche che ha partecipato alla protesta. Di certo è stato uno sciopero politico, di confronto tra le due sinistre, una sinistra politica e una sinistra sociale in nome del Jobs Act. In piazza si sono confrontate due concezioni: una di modernizzazione dall’alto del sistema e l’altra di mobilitazione e resistenza dal basso. Di certo le esigenze della fabbrica e dei suoi lavoratori in quella piazza di fatto spariscono. Il tutto rischia di lasciare la fabbrica sullo sfondo. Il dato da cui partire è che migliaia di persone si sono mobilitate in 54 piazze in tutta Italia con una mobilitazione orizzontale difficilmente leggibile solo con gli occhiali delle appartenenze, delle classi e della composizione sociale del ‘900.
Tant’ è che lo sciopero era promosso dal tandem inedito Cgil-Uil senza la Cisl con l’adesione dell’Ugl. Se guardiamo ai numeri, non siamo di fronte alla grande mobilitazione romana dove ci si conta. Sono lontani i tempi dei 3 milioni di Cofferati al Circo Massimo per contare di più nella concertazione. Anzi, oggi si chiede che “il premier ci convochi”.
Già alla manifestazione romana della Cgil della Camusso e Landini, con un milione di partecipanti, non vi era solo la fabbrica ma licenziati, precari, lavoratori autonomi sfiduciati, immigrati, pensionati e i temi dominanti non erano solo quelli della fabbrica ma anche casa e povertà. Lo sciopero generale che è seguito ci interroga se siamo di fronte a un sindacato non solo operaio ma sociale che assume il disagio territoriale diffuso nella crisi come malessere a cui dar voce. Tant’è che in molte città si è mobilitata una composizione sociale fatta da studenti, precari, partite Iva disilluse dal lavoro autonomo, disagio delle periferie per la casa e pensionati. E c’è da chiedersi se la piazza sia la risposta giusta per affrontare questi problemi.
Il problema non è solo crisi e fabbrica ma crisi e welfare e come questo impatta sui territori che sono la nuova fabbrica del disagio con gli esercizi commerciali che chiudono con i neet sfiduciati che non cercano più lavoro con le famiglie che temono il futuro attraversando impaurite il presente. La crisi del ceto medio sta sullo sfondo, è più in preda alla paura del futuro che alla voglia di manifestare. E non fa sciopero e non tende a schierarsi di fronte a uno sciopero che è stato anche politico. Rimane il fatto che, fatte tutte le analisi sulla composizione sociale e sul mutamento del ruolo del sindacato, lo sciopero non può essere letto solo come una questione di numeri ma anche un dar voce a una domanda diffusa di cui tener conto nella crisi e nel dialogo sociale, ma per innovare e cambiare.