L’opinione pubblica e i manager: il rapporto è sempre più conflittuale. Soprattutto se si parla di posti pubblici. Si sprecano espressioni del tipo “manager d’oro”, “stretta sui manager”, “dispersione della cultura manageriale”. C’è molta confusione in giro, tanta demagogia. Senza distinzione alcuna tra sottocategorie: i veri manager, quelli che la meta l’hanno raggiunto col merito e col “sudore della fronte”; coloro che ricoprono ruoli para-imprenditoriali, con retribuzioni fuori dalla media; gli amministratori di aziende a controllo pubblico, che rivestono incarichi sempre più prestigiosi. Questo il mondo di cui, indistintamente, si parla. Ma è evidente che fare di tutta l’erba un fascio è un atteggiamento miope da combattere; i falsi miti devono cadere.
Poi c’è la crisi e l’esigenza di trovare gli slanci, economici, politici, sociali e morali, da cui ripartire e far ripartire l’economia. I numerosi licenziamenti che hanno riguardato i manager, in modo crescente negli ultimi anni, sono stati il segno di una percezione negativa, spesso errata del loro ruolo, vissuto più come peso che come arma strategica.
Dall’Indagine annuale 2013 sulle risoluzioni dei rapporti di lavoro dei dirigenti industriali, condotta da Federmanager, è risultato che il 32% del totale delle cessazioni dei rapporti di lavoro che hanno riguardato i dirigenti sono stati licenziamenti: quello per giustificato motivo oggettivo, ossia sorretto da ragioni organizzative, certamente il più diffuso, legato soprattutto alla soppressione della posizione (62%). Chiaramente non c’è alcun intento persecutorio verso la categoria; si tratta per lo più d piani di riorganizzazione aziendale post crisi a cui neppure i dirigenti sfuggono, a testimonianza di una forte noncuranza/ignoranza rispetto ai valori e alla valenza strategica che ne contraddistingue il ruolo.
Sottende questo disagio il libro “Risorse sovrumane: autoritratto dei manager italiani di oggi”, frutto della ricerca condotta da Federmanager con l’Istituto Episteme di Milano. “L’indagine condotta – afferma Giorgio Ambrogioni, Presidente di Federmanager, nella prefazione al volume – intende evidenziare come i dirigenti italiani intendono il loro ruolo e la loro funzione sociale”. Sono state adottate due prospettive d’indagine tra loro complementari: in prima analisi la percezione del ruolo professionale e sociale e di sé come persone, restituita dai diretti interessati; in seconda analisi la visione dell’universo dei manager da parte dei principali protagonisti del mondo economico-finanziario, politico e sindacale italiano. Alla base di tutto il lavoro fa da motore una domanda semplice dalla risposta complessa, per niente scontata, con risvolti sorprendenti che rendono distante il manager di oggi da quello di un tempo: come sono i manager di oggi?
Maggior spazio alla dimensione personale, familiare e sociale; meno individualismo rispetto al passato, meno valore al denaro e alla carriera: questo quanto emerge con forza dal testo. Egualmente importanti, la dimensione personale e quella professionale si aprono al dialogo, con tensione etica e nella dimensione di una sensibilità sociale sempre più spiccata. Sempre più persona, sempre più citizen perché solo l’apertura al sociale, il confronto, il networking possono conferire al dirigente una “testa globale” che gli permette di catturare tutti i segnali del cambiamento, appropriarsi delle logiche della business collaboration, per tradurli in strategie per la crescita. Nonostante la situazione attuale non giochi a loro vantaggio, niente ha scalfito la consapevolezza di essere depositari di competenze e attitudini fondamentali per affrontare le sfide del momento sentendosi ed esponendosi, ora più di prima, come “classe” dirigente del Paese e mettendo, altresì, il proprio bagaglio di risorse a disposizione della collettività.
L’ “Io professionale” resta importante ma non è totalizzante. Questa l’altra grande novità: l’”Io professionale” non solo, come detto, dialoga con l’“Io persona”, ma, a differenza del passato, si pone rispetto al secondo in una dimensione di complementarietà. L’esistenza ha senso quando c’è integrazione, equilibrio tra obiettivi professionali e personali. Sono le doti e le virtus nate, cresciute e fortificate insieme alla persona, che orientano sia la strada professionale che le scelte esistenziali: l’alfabeto del dirigente, fatto di senso di responsabilità, problem solving, capacità decisionale è nel suo DNA.
La ricerca mette, poi, in luce l’importanza che riveste la figura manageriale nelle organizzazioni aziendali: di certo non una scoperta ma una consapevolezza da ribadire, spesso dimenticata o sottovalutata. Nei contesti produttivi i manager preparati sono sempre portatori di qualità ed efficienza anche se ancora è troppo bassa la percezione del loro peso strategico. Basta considerare che su 160.000 aziende iscritte a Confindustria Confapi, Confservizi e altre solo 17.000 hanno al loro interno una figura manageriale esterna.
“Ricchi di queste consapevolezze, partendo proprio dalle stesse oltre che dalla coscienza della crisi – sostiene il presidente di Federmanager – è giunto il tempo del fare”. Dunque fare, fare bene, fare in fretta. Non c’è più spazio per temporeggiare e scaricare colpe sull’altro, ognuno deve sentirsi investito in prima persona di un ruolo focale per la crescita e il benessere del Paese. Per manager e imprenditori abituati ad essere misurati sulla produttività, sui risultati, ad essere valutati sul merito e non sulla base delle “amicizie influenti” potrebbe aprirsi un momento finalmente favorevole.
Intervistando il Cardinale Bagnasco, dal testo dell’indagine, escono fuori una serie di considerazioni notevoli sul manager “uomo nuovo”, che possono servire da spunto per opportune, successive riflessioni: dalla viva vox del Cardinale emerge che “si sta affermando un’idea di managerialità diffusa, in cui il manager si autopercepisce sempre più come un attivatore di processi. Nella misura in cui a questa autopercezione seguiranno comportamenti conseguenti di ricerca delle sinergie, di valorizzazione delle potenzialità, di scommessa sugli uomini prima che sui soldi, la fine del tunnel sarà sempre più vicina”. E’ questa la “fotografia in movimento”, al centro della quale sembrano predominare valori – quali continuità operosa, onestà, attitudine al sacrificio, senso del progetto – e volontà, le armi che hanno permesso all’Italia di passare, nel dopoguerra, dalla realtà di un piccolo paese contadino, con un altissimo tasso di analfabetismo, alla “ribalta” di grande potenza.
Valentina Picarelli
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@valepic86