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Sergio Marchionne ha consentito a un’azienda come FIAT di affrontare un nodo strategico per la sua modernizzazione. Dal suo insediamento come amministratore delegato il manager italo-canadese ha infatti sviluppato una strategia di azione che dal livello nazionale si spostava finalmente a quello globale. Competere nel mercato mondiale dell’auto significa disporre di standard produttivi allineati a quelli dei principali competitor, in un settore contraddistinto da margini molto stretti di guadagno su ogni singolo prodotto. Con la crisi economica il problema della competitività sui costi, e quindi sulle efficienze produttive, era esploso. In particolare, in Europa. Volkswagen rappresentava il concorrente più incisivo sul mercato. Le sue politiche di abbattimento massivo dei prezzi di vendita derivavano da cinque anni di accordi in deroga sugli orari e i salari grazie alle clausole di c.d. “sganciamento contrattuale” ammesse dalla legislazione tedesca. Già nel 2010 poi le retribuzioni contrattuali erano tornate ad aumentare, con l’obiettivo di sostentare i consumi interni e controbilanciare il crollo dell’export. Una dinamica per certi versi speculare a quella verificatasi nel 2009 sul versante americano, dove Marchionne, in cambio dell’impegno a salvare Chrysler, ottenne dal sindacato dell’auto UAW ampie concessioni che permisero di competere sul costo del lavoro, per poi negoziare una nuovo percorso per la crescita dei salari cinque anni dopo, nell’autunno del 2015
Nel 2009 quindi il confronto per la definizione delle regole del gioco non poteva più essere quello nazionale. Fatto che, per quella che è l’unica grande casa Italiana produttrice di autoveicoli di massa, il cui destino era oltretutto ormai legato all’andamento del comparto negli Stati Uniti, significava una perdita di importanza del CCNL e delle relazioni industriali di settore. Tuttavia ciò non si traduceva tanto nella necessità di svincolarsi dal sistema contrattuale allora vigente, né nel disinteresse per il coordinamento delle regole del gioco con le aziende competitor. Significava anzi spostare il riferimento geografico del confronto. Non a caso in concomitanza con l’uscita della FIAT da Confindustria nell’autunno del 2011 Marchionne assunse la presidenza dell’ ACEA (European Automobile Manufacturers’ Association). E non a caso, quattro anni più tardi, in una relazione agli investitori del 2015 che aveva guadagnato presto una certa notorietà, Marchionne parlava dell’industria dell’auto come di un Capital Junkie, un comparto “drogato” che avrebbe potuto evitare di bruciare capitali se gli investimenti in ricerca e sviluppo su alcuni componenti fossero stati condivisi dai grandi player internazionali.
Ora, se sul mercato si competeva con aziende come Volkswagen, e in un assetto internazionale, la scelta di adottare il WCM (World Class Manufacturing) e tutte le metodologie correlate (Ergo/Uas, kaizen ecc…) era una scelta obbligata per trovare una nuova sostenibilità del rapporto tra costi di produzione e qualità del lavoro e delle relative condizioni. Marchionne col sindacato è quindi riuscito a trasferire sul piano delle regole di organizzazione del lavoro i principi del WCM. Il che non solo ha determinato un punto di equilibrio nello scambio contrattuale diverso e neppure comparabile con quello del passato, ma un cambio culturale profondo, volto non tanto ad escludere le organizzazioni dei lavoratori, quanto ad ottenere la certezza della governabilità degli stabilimenti e la loro più efficiente gestione organizzativa.
I temi della esigibilità da un lato, e della partecipazione dall’altro costituiscono quindi due facce della stessa medaglia di cui si deve tenere conto per capire la visione di Marchionne delle relazioni industriali moderne. Quelle relazioni industriali intese come leva per la competitività, dove una volta definito uno standard di produzione, dato dal rapporto organizzativo tra tempi e costi, quello standard deve essere rispettato e tendenzialmente migliorato (kaizen), e deve essere allineato all’andamento della domanda sul mercato. In questa visione non è quindi immaginabile che una volta definito un determinato disegno organizzativo, nella prospettiva del sistema del WCM, questo possa essere compromessa ad esempio da un rallentamento, da un tasso eccessivo di assenteismo, da una mancanza del lavoratore, da uno sciopero ecc. Ogni alterazione dello standard, nelle dinamiche di svolgimento di ogni singola prestazione, comporta una perdita di competitività dell’azienda come insieme inseparabile di input organizzati e coordinati. Da qui la celebre frase di Marchionne nella lettera a Marcegaglia per cui “in Italia non è possibile produrre con gli stessi standard dei principali competitor a livello globale”. Se il CCNL prevede una certa flessibilità oraria, oppure la chiara indicazione che il salario aziendale deve essere flessibile, l’azienda deve poter attivare queste flessibilità a livello di stabilimento senza opposizioni o rivendicazioni a titolo compensativo da parte del sindacato, se non nella sede di una nuova negoziazione. Si tratta insomma non di uno svilimento del contratto collettivo di lavoro, ma della sua massima espressione come contratto di organizzazione della produzione in generale.
Marchionne aveva quindi in mente, come qualsiasi imprenditore o amministratore delegato d’azienda, il mantra della certezza delle regole. E al termine dei lavori del Consiglio per le relazioni tra Italia e Stati Uniti tenutosi nel dicembre 2013, disse che “per l’Italia non [era] più tempo di compromessi” e che bisognava “scegliere fra i sistemi economici americano e tedesco”, ossia tra la mano invisibile del mercato e condizioni esigibili e rispettate da tutti, dentro e fuori la fabbrica.
Proprio qui si situava il punto di caduta per il sistema italiano di relazioni industriali, di cui il modello FCA ha rappresentato la sola credibile alternativa a partire dal 2012. Un sistema che è stato da sempre contraddistinto, seppur con marcate differenze settoriali, da moltissime regole (alcune buone, altre meno), ma anche da un bassissimo tasso di certezza ed esigibilità.
E si comprende da questo punto vista anche la messa in discussione dei rapporti con un sindacato che non ha compreso il cambiamento culturale richiesto da un management che non rappresentava più il vecchio paternalismo imprenditoriale. Atteggiamento al quale era legato in ragione di uno speculare comportamento conflittuale tipico del sindacalismo di classe. La vera difficoltà della Fiom è stata infatti in larga parte quella di comprendere quanto sia diventata determinante ogni singola professionalità nel nuovo disegno organizzativo delle fabbriche di FCA a fronte degli investimenti tecnologici e del WCM che è lo strumento per far vivere tali investimenti nell’organizzazione. Il potere di conflitto non è più collettivo, ma individuale: solo chi ha visitato lo stabilimento di Pomigliano o altri stabilimenti FCA può rendersi conto di quanto le chance competitive di sistema dipendano dall’operato di ogni singolo lavoratore, il quale a sua volta è inserito in un disegno organizzativo armonico dove il tutto è di più di ogni singola parte. E ciò senza valide alternative nella competizione per la sopravvivenza industriale.
Alla efficace interpretazione di Marchionne della centralità delle relazioni industriali nel contesto globale fanno poi certo da contrasto alcuni capitoli rispetto ai quali è stata a più riprese sottolineata una residuale miopia, nel senso di una lettura incompleta dei fronti strategici della competizione internazionale. Sebbene per esempio l’offerta di Marchionne rivolta a Chrysler consistesse nella tecnologia che FIAT poteva mettere a disposizione, è proprio sul piano della innovazione tecnologica e di prodotto che gli analisti si sono mostrati più scettici additando la scarsità di nuovi modelli, l’arretratezza nel segmento dell’ibrido e dell’elettrico, l’insufficiente penetrazione nel mercato asiatico. Tutti aspetti in vario modo ricondotti ai piani industriali non andati in porto, come il piano Fabbrica Italia, al centro dell’innovazione dell’assetto contrattuale perseguita da FIAT, comunicato come “il più straordinario piano industriale” che l’Italia avesse conosciuto, ma riconsiderato solo un anno più tardi, con un ridimensionamento considerevole degli investimenti promessi.
In conclusione va quindi da sé che una lettura storica del ruolo di Marchionne per l’industria italiana vada condotta non solo tra le pagine dei giornali, spesso viziate da una polarizzazione delle vedute pro e contro l’ex manager di Fiat, bensì tra tutti i documenti e le fonti originali utili a ricostruire la modernità e le criticità di un “uomo di industria” che ha voluto farsi interprete in prima linea di scelte di discontnuità, certo controverse, ma non meno coraggiose e necessarie.
ADAPT Research Fellow