Dopo un periodo di sopore mediatico, il referendum sulle trivellazioni ha acquisito nelle ultime settimane una inedita risonanza. Complici da un lato l’avvicinarsi dell’appuntamento con il giudizio popolare, fissato per il prossimo 17 aprile, e dall’altro le posizioni recentemente espresse da alcuni rappresentanti sindacali, la stampa sembra aver scoperto l’attrattività del quesito referendario nella parvenza di uno scontro tra ambiente e lavoro.
Nello specifico, saremo presto chiamati a decidere sull’eventualità di cancellare un frammento del codice dell’ambiente (art. 6, c. 17 del d.lgs. n. 152/2006), che permette le trivellazioni fino a quando il giacimento è in attività. Con un “sì” ammetteremmo la chiusura degli impianti (collocati entro le 12 miglia dalla costa) alla scadenza delle concessioni, anche in caso di permanenza di gas o petrolio.
Sono le stesse dichiarazioni e i comunicati rilasciati da talune organizzazioni sindacali a sottintendere l’esistenza di un trade-off tra salvaguardia ambientale e tutela occupazionale. Da un lato, per le federazioni dei chimici di Cigl, Cisl e Uil, la perdita dei posti di lavoro rappresenta l’inevitabile contropartita economica e sociale della sospensione delle attività estrattive. Dall’altro, per i metalmeccanici di Maurizio Landini, il rilancio delle attività petrolifere non costituisce una occasione di crescita per l’Italia, la cui ricchezza, in termini sia economici che occupazionali, proviene invece dal turismo, dal patrimonio culturale, e dalle piccole e medie imprese.
Le valutazioni di Fiom-Cgil vertono in prevalenza sulla necessità di perseguire un “nuovo modello energetico e di sviluppo”: un impegno ambizioso, cui si uniscono complessivamente circa 400 sindacalisti della Cgil. Un impegno che però, pur negando l’impatto occupazionale di una eventuale vittoria del “sì” e pur invitando a ragionare nella prospettiva di un sistema di produzione a basso contenuto di carbonio, non placa le perplessità sulla sorte dei lavoratori impiegati nelle attività estrattive.
Ma davvero l’unica prospettiva è quella di scegliere tra lo sviluppo sostenibile e la salvaguardia occupazionale? Chi crede nel metodo delle relazioni industriali non può che dare risposta negativa, constatando l’esistenza di uno spazio di convergenza tra le due posizioni che può e deve essere regolato tramite il dialogo sociale e la contrattazione collettiva.
Forme di coinvolgimento dei lavoratori e di dialogo con le istituzioni possono infatti contribuire alla previsione di percorsi mirati di accompagnamento alla ricerca di nuove opportunità occupazionali (il passaggio alle rinnovabili nel settore energetico del mare del Nord e la gestione della crisi del carbone nella regione tedesca della Ruhr), nonché alla definizione di piani formativi per lo sviluppo e il potenziamento delle competenze (System Photonics ed EnerBLU in Italia). Capacità che si ritengono necessarie, ad esempio, per la produzione di veicoli a basso consumo energetico (Mia Electric in Francia) e per l’installazione di impianti eolici (EDP Group in Portogallo). Sono queste alcune delle risposte alla sfida lanciata dal cambiamento climatico. Queste le modalità con cui perseguire le ragioni dell’ambiente senza ridurre né deteriorare le prospettive occupazionali.
D’altro canto, non necessariamente la scelta della difesa occupazionale e dell’investimento nei settori convenzionali dell’economia pregiudica l’attenzione alla salvaguardia ecologica. Decisioni concordate tra aziende e rappresentanze possono infatti riguardare la riduzione dell’impatto ambientale delle attività tradizionali: incrementare i controlli e investire in nuove tecnologie per prevenire gli incidenti agli impianti di perforazione e i danni collaterali alla salute del mare, della fauna e dei fondali (Petrobras in Brasile); varare approcci tesi a sensibilizzare management e maestranze sulla necessità di adottare comportamenti eco-sostenibili, anche attraverso la previsione di incentivi economici legati a obiettivi di efficienza e risparmio energetico (Renner e Luxottica in Italia).
Uno sguardo meno schiacciato sulle contingenze attuali, che tenga conto delle esperienze registrate nel contesto domestico e internazionale, mostra quindi quanto siano concrete le possibilità di innesco sinergico tra ambiente e lavoro. Il dibattito in corso sul referendum del prossimo 17 aprile non deve allora indurre verso la facile percezione che sia imprescindibile dover scegliere tra l’una e l’altra variabile, ma deve costituire l’occasione per riflettere, anche in Italia, sulle pratiche e sinergie che possano portare a una necessaria alleanza tra salvaguardia ecologica e crescita economica e occupazionale. Anche a questo servono le relazioni industriali e sarà, presumibilmente, proprio la dimensione ambientale una delle principali arene di azione per il sindacato, in un contesto dove la velocità del cambiamento climatico e l’urgenza di convergere verso un modello di crescita eco-compatibile non ammettono più ritardi all’assunzione di responsabilità da parte di istituzioni e forze sociali.
ADAPT Junior Research Fellow
@ilaria_armaroli