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Bollettino ADAPT 21 settembre 2020, n. 34
L’articolo del Professor Michele Tiraboschi pubblicato su Il Sole 24 Ore del 16 settembre 2020, dal titolo “È una sfida radicale, non va affrontata solo a colpi di regole”, sollecita una seria riflessione tra teorici e pratici delle relazioni di lavoro.
In pochissime battute, il Professor Tiraboschi ha tratto la summa di decenni di osservazioni e ricerche, molte volte estremamente più avanti dei tempi, e sullo smart working evidenzia come emerga “una idea del lavoro non solo come scambio economico (l’ ora lavoro) ma come progetto di vita ed espressione della propria soggettività che è poi la vera chiave di volta per aggredire, fuori da vecchie logiche manageriali di comando e controllo, il nodo della produttività e della dignità del lavoro”, chiosando che non occorre una nuova normativa sul lavoro agile in sé (attualmente oggetto di iniziative parlamentari, ma un ripensamento della “intera normativa dei contratti di lavoro in generale, superando una volta per tutte la persistente contrapposizione tra autonomi e subordinati che è espressione di quell’ordine economico e sociale del Novecento che ancora blocca la rivoluzione del lavoro promessa dai fautori dello smart working”.
Non sarebbero facili parole ulteriori e diverse per esprimere in modo altrettanto chiaro e profondo una riflessione che a nostro parere bene sintetizza l’estrema complessità del tema.
Essa, comunque, dà lo spunto per supportare una suggestione. Certamente, rivedere la legge 81/2017 di disciplina del lavoro agile assoggetta l’istituto al rischio dell’iper regolamentazione e all’irrigidimento normativo, svilendo il beneficio primario della possibilità di disegnare i margini di autonomia e responsabilità dell’attività lavorativa permessi dall’accordo individuale.
Eppure, proprio le riflessioni del Prof. Tiraboschi suggeriscono che, forse, un intervento normativo non è da trascurare, ma, appunto, non per rivedere il lavoro agile in sé, ma per giungere alla conclusione che il legislatore degli anni tra il 2015 e il 2017 ha solo sfiorato: giungere ad una disciplina univoca e coerente del lavoro subordinato, considerando la disposizione in smart working come il tratto comune tra attività che si prestano ad essere svolte nei locali di lavoro ed attività sempre subordinate che dei locali e dell’orario prefissati non hanno necessità.
Quel che andrebbe superato è il persistente dualismo tra, da una parte, collaborazioni coordinate e continuative e prestazioni solo formalmente autonome di titolari di Partita Iva con uno o pochi committenti, e lavoro subordinato dall’altro.
Il lavoro agile è stato regolato dall’articolo 18, comma 1, della legge 81/2017 come un proprium esclusivo del lavoro subordinato, caratterizzato dalla sua specifica “organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.
Ma, alla luce delle riflessioni del Prof. Tiraboschi, occorre chiedersi qual è la differenza sostanziale tra la modalità lavorativa agile, enunciata sopra, e la definizione della collaborazione autonoma contenuta nell’articolo 2, comma 1, della legge 81/2015: “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
La collaborazione coordinata e continuativa e il lavoro autonomo a Partita Iva monocommittenti nella definizione che diede a suo tempo il d.lgs 276/2003 avevano tratti ancor più marcatamente simmetrici al lavoro agile. L’articolo 61 di detta norma, abrogato dalla riforma del 2015, qualificava la collaborazione come lavori “riconducibili a uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore”, specificando che il progetto dovesse essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale, avuto riguardo al coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa.
In ogni caso, agganciando, come doveroso, l’articolo 2, comma 1, del d.lgs 81/2015 alla definizione della collaborazione coordinata e continuativa contenuta nell’articolo 403, n. 3, del codice di procedura civile (“altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato. La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”) la presenza di obiettivi, la presenza di cicli, la loro misurabilità, il loro conseguimento in base ad un’organizzazione autonoma che prescinda da un orario e da un luogo di lavoro prefissati sono l’elemento comune.
Talmente comune che lo smart working altro non dovrebbe essere se non la rivelazione: il lavoro con un solo o pochissimi committenti, svolto da chi non disponga di un’organizzazione di mezzi tale da potersi definire “di impresa” (un pc, un cellulare, un collegamento internet, una bicicletta ed una scrivania non possono essere indice di un’organizzazione aziendale) andrebbe considerato sotto un unico genere: lavoro subordinato. Se si vuole, lavoro subordinato 2.0, quello che, al pari della visione tipica che si ha della collaborazione autonoma, non ha nella sede di lavoro, nella predeterminazione fissa dell’orario e nel sinallagma tempo-remunerazione, gli elementi caratterizzanti: in due parole, quindi, il lavoro agile.
Vi è, allora, l’opportunità storica di semplificare il quadro delle regole e provare a creare una linea di demarcazione vera e concreta tra lavoro subordinato, anche se con ampi spazi di autonomia organizzativa, e vero e proprio lavoro autonomo e attività di impresa.
La disciplina del lavoro “agile” è disciplina del lavoro, in quanto tale, e come tale in grado di attrarre a sé le varie sfaccettature della monocommittenza. Vi sono le condizioni, anche, per regolamentare questa forma di lavoro subordinato in modo agile anche in relazione al tempo di lavoro: un tempo che possa essere determinato anche per durate molto brevi, in relazione alle esigenze progettuali, senza le rigidità di numeri minimi di giorni o di rinnovi.
Il lavoro agile è anche la strada per regolare come è giusto che sia, quale rapporto di lavoro subordinato, l’attività dei riders e scongiurare i tentativi in atto di disciplinare il lavoro per obiettivi con la forma del cottimo, negazione stessa di autonomia e responsabilizzazione.
Proprio la sfida di lavori come quello dei consegnatari di merci e servizi, gestiti da piattaforme multimediali, è quella che può essere vinta con una regolazione del lavoro agile capace di includere il lavoro con monocommittenza ed assenza di caratteri di vera autonomia imprenditoriale.
Sì, perché il lavoro agile non è necessariamente quello svolto seduti dietro una scrivania, utilizzando pc e collegamenti internet. Non si deve dimenticare che lo smart working prevede il “possibile utilizzo di strumenti tecnologici”. Ciò che è “agile” del lavoro, ma la traduzione più corretta di smart è “intelligente”, non è di per sé lo strumento di lavoro, che si immagina coincidere con una piattaforma internet. Anche un semplice mezzo di trasporto come una bici può e deve essere smart, laddove chi organizza abbia contezza di standard lavorativi, in termini di tempi medi di consegna per metri percorsi e per ambiti territoriali, sì da poter definire obiettivi generali connessi alla normale prestazione, slegando il compenso dalla corsa a perdifiato alla singola consegna.
È anche con una configurazione corretta del lavoro intelligente di questo genere che le periferie potranno diventare più fruibili, più aperte ad una vita sociale e lavorativa interconnessa, più disponibili a servizi diffusi, più inclini alla generazione di ristori, hub, luoghi-non luoghi di lavoro (sale di bar dedicate a smart workers, locali per affitto di postazioni), ravvivando le città, modificando i loro tempi, rimediando all’addensamento del traffico, all’affollamento dei mezzi. L’intelligenza non è solo del singolo lavoro: è un’intelligenza da considerare come collettiva e per l’utilità di tutti.
Luigi Oliveri
ADAPT Professional Fellow