Somministrazione irregolare e licenziamento. Interpretazione autentica e questioni (ancora) in sospeso

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Bollettino ADAPT 31 agosto 2020, n. 31

 

Nel mentre dell’intensa attività legislativa d’emergenza, non manca di rilevare, anche in ambito lavoristico, taluni interventi sostanzialmente avulsi dalla stretta necessità di regolamentare e/o sostenere una forzata convivenza con il virus ma che, tuttavia, incidono, in modo rilevante, il previgente assetto normativo.

 

Da ultimo, in sede di conversione del c.d. Decreto Rilancio, l’articolo 80-bis della legge 77 tenta di “risolvere”, in evidente favor del prestatore, un aspetto piuttosto controverso della tutela in caso di somministrazione irregolare.

 

Invero, attraverso una norma di interpretazione autentica, locuzione utilizzata espressamente nel titolo della disposizione, si prevede che “Il secondo periodo del comma 3 dell’articolo 38 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento.”.

 

Chiara dunque la mens legis la quale, rendendo “estraneo” alla relazione un eventuale atto di recesso intimato dal somministratore, in epoca precedente all’istaurazione del giudizio teso a ottenere la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore o comunque prima che questo sia giunto a sentenza, tutela il prestatore “vittima” di illecita fornitura garantendogli la certezza del trasferimento della titolarità del contratto, a questo punto certamente in essere.

 

Di qui, anche in considerazione delle potenziali ricadute di questa “nuova” lettura del testo originario1 su situazione pregresse ancora pendenti, taluni commentatori (si veda G. Falasca su Il Sole 24 Ore del 06.08.2020) hanno ipotizzato, in modo senz’altro suggestivo, che “qualora sussistesse un dubbio circa la legittimità della somministrazione, dell’appalto o del distacco, l’impresa che utilizza il lavoratore dovrebbe procedere a un autonomo atto di risoluzione del rapporto, prima ancora di essere riconosciuta come formale datore di lavoro”.

 

Detto che, oltre a rappresentare una sorta di “excusatio non petita, accusatio manifesta”, peraltro difficilmente gestibile in termini di causa del recesso, una vicenda giuridica di questo genere risulterebbe estremamente atipica e, presumibilmente, per analogia, subirebbe le medesime conseguenza dell’alea del giudizio dovute all’assenza di uniformità di orientamento, da parte della giurisprudenza, in materia di “doppio licenziamento” e che in egual modo vertono sulle ricadute giuridiche di un atto unilaterale prodotto precedentemente al rispristino del contratto.

 

Infatti, se, da un lato, l’interpretazione pretoria maggioritaria ammette una efficacia sospesa nel senso che “ove il datore di lavoro abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento fondato su un motivo diverso, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo [e che] entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il licenziamento precedente”2 , dall’altro, esiste pur sempre un contrastante convincimento secondo il quale “un ulteriore licenziamento, intimato in corso di causa e prima della sentenza di accoglimento dell’impugnazione del primo, deve considerarsi privo di ogni effetto per l’impossibilità di adempiere la propria funzione; né la sentenza di annullamento fa acquisire allo stesso efficacia, operando la retroattività solo in relazione alla ricostituzione del rapporto e non anche alle manifestazioni di volontà datoriali poste in essere quando il rapporto era ormai estinto3.

 

Ma al netto di questo aspetto, la tesi sostenuta si fonda su di un presupposto che, in questa sede, si intende obbiettare ossia l’uniformità normativa, almeno sul piano delle conseguenze in caso di accoglimento del ricorso ex art. 414 c.p.c., nei differenti ambiti normativi della somministrazione, dell’appalto e del distacco.

 

Invero, non può contestarsi il fatto che, nel regime previgente al D.L.gs. 81 del 2015, la disposizione (art. 27 c. 2 D.L.gs. 276/2003) salvifica dei pagamenti e di “tutti gli atti compiuti […] per la costituzione o la gestione del rapporto”, prevista in particolare per la somministrazione irregolare, si estendeva verso le fattispecie dell’appalto illecito (art. 29 c. 3-bis D.L.gs. 276/2003) e del distacco privo dei crismi di legge (art. 30 c. 4-bis D.L.gs. 276/2003), attraverso un esplicito richiamo normativo, “in tale ipotesi si applica il disposto dell’articolo 27, comma 2”.

 

Ed è altrettanto innegabile come, in sede di emanazione della disciplina organica delle tipologie contrattuali, decreto 81 us, il legislatore abbia sì espunto dall’ordinamento il predetto articolo 27 comma 2, per poi trasporlo, tale quale, nell’articolo 38 comma 3, all’interno del capo IV dedicato alla somministrazione di lavoro, ma, allo stesso tempo, non si è premurato di “aggiornare” i riferimenti normativi testé menzionati, con l’effetto di risulta di avere per appalto e distacco un rinvio a disposizione abrogata.

 

A questo punto, considerata la preminenza, fra i canoni ermeneutici, dell’interpretazione letterale delle norme4, l’ambito marginale della c.d. reviviscenza normativa5 e il fatto che, secondo autorevole dottrina, abrogare non significa “non disporre” ma “disporre diversamente”, sembra opportuno prendere atto dell’operazione legislativa anzidetta, “sforzandosi di dare alle norme un senso6.

 

E dunque, se è pur vero che ogni qualvolta si fuoriesca dai rigidi schemi voluti dal legislatore atti a consentire, legittimamente, processi di esternalizzazione, distacco o fornitura di personale, si finisce sempre per rientrare in forme illecite di “somministrazione irregolare” ex articolo 27 D.L.gs. 276/20037, oggi rubricata all’articolo 38 D.L.gs. 81 del 2015, è altrettanto corretto assumere che, nella fase costitutiva e sino all’eventuale accertamento giudiziale, l’appalto resta una tipologia contrattuale del tutto autonoma oltreché tipica dell’ordinamento (art. 1655c.c.) come altrettanto distinta resta la modalità di esecuzione del rapporto8 attraverso il distacco ex art. 29 D.L.gs. 276/2003.

 

Pertanto, piuttosto che propendere per la sopravvivenza implicita o per analogia di una estensione normativa, oggi, letteralmente soppressa, si potrebbe ipotizzare che il legislatore (rectius l’esecutivo) del 2015, nell’esercizio delle sue prerogative, abbia inteso riservare il “beneficio” di fare propri gli atti compiuti da terzi, al solo utilizzatore colpevole di avere fruito della somministrazione di lavoro oltre le soglie numeriche di legge (art. 31 c.1 e 2), nelle ipotesi di divieto espressamente disposte (art. 32) ovvero in caso di particolari vizi di forma nel contratto (art. 33 c. 1 lettere a), b), c) e d)), escludendo, invece, pseudo committenti o distaccatari poi disvelati, da accertamento giudiziale, nel loro ruolo di datore di lavoro effettivo.

 

Questa interpretazione troverebbe peraltro giustificazione avuto riguardo della intuitiva differenza in termini di disvalore, anche sociale, delle condotte anzidelineate.

 

In conclusione, attendendo pronunciamenti della magistratura sul punto e volendo trascurare l’ipotesi di mera sciatteria da parte del legislatore, non appare irragionevole sostenere che l’interpretazione autentica in parola incida, esclusivamente, sul contratto – irregolare – di somministrazione mentre una preclusione ancora più ampia, in caso di appalto o distacco illeciti, sarebbe già operante dal 25 giugno 2015, data di entrata in vigore del D.L.gs. 81/2015, essendo in tali fattispecie esclusa ogni effetto liberatorio e non potendosi considerare come compiuti dal datore di lavoro occulto alcuno degli atti incidenti sulla relazione subordinata, compreso il licenziamento (e l’apposizione del termine al contratto?), eventualmente posti in essere in momento antecedente la sentenza di costituzione del rapporto.

 

Federico Avanzi

Consulente del lavoro

 

1 Sulla legittimità costituzionale delle norme di interpretazione autentica si rimanda a Sezioni Unite Civili n. 27093/2017 punto 26

2 Cassazione Sez. Lavoro n. 11910/2015

3 Cassazione Sez. Lavoro n. 10394/2005

4 Sulla residualità del criterio, sussidiario, della mens legis, Cassazione Sez. Lavoro n. 3382/2009

5 Con sentenza n. 13 del 2012, la Corte Costituzionale ha ammesso il “ritorno in vita” nelle sole ipotesi di abrogazione legislativa di norma meramente abrogatrice e di illegittimità, costituzionale, di norma espressamente abrogatrice.

6 Sulla necessità di attribuire un significato all’aggiornamento delle disposizioni normative, si veda Cassazione Sez. Lavoro n. 1663/2020 punto 17

7 In questo senso, sul fatto che ogni fattispecie di illecita interposizione finisce col realizzare una somministrazione irregolare si veda Cassazione Sez. Lavoro n. 22179/2018

8 Sul distacco come modalità di esecuzione del rapporto anziché tipologia contrattuale Cassazione Sez. Lavoro n. 1888/2019

 

Somministrazione irregolare e licenziamento. Interpretazione autentica e questioni (ancora) in sospeso
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