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Bollettino ADAPT 28 febbraio 2022, n. 8
Lo stato di emergenza, dichiarato con la delibera del 31 marzo 2020 del Consiglio dei Ministri, e il c.d. “lockdown”, ovvero l’obbligo di permanenza domiciliare imposto dal D.P.C.M. 9 marzo 2020, sono illegittimi: questa la conclusione cui giunge il Tribunale di Pisa con sentenza n. 1842/2021, “smontando” di fatto l’intera architettura normativa costruita a partire dall’inizio dell’anno 2020 per fronteggiare l’emergenza pandemica determinata dalla repentina diffusione del virus Covid-19.
La coraggiosa pronuncia del Giudice toscano si caratterizza non solo per il tenore costituzionale che la medesima custodisce, ma altresì per le robuste quanto ampie motivazioni sviluppate a suffragio della propria tesi, certamente impopolare quantomeno nelle aule politiche, ma forte di un complesso di argomentazioni che, scrutando a fondo le chances di legittimità e costituzionale e amministrativa dei suddetti provvedimenti governativi, rilevano la contrarietà di questi ultimi tanto alla Carta Costituzionale quanto alla “Legge Madre” del provvedimento amministrativo, ovvero la legge n. 241/1990.
La violazione del principio di legalità e l’illegittimità sotto il profilo costituzionale
Se infatti è evidente come la Costituzione, in particolare all’art. 32, assegni un ruolo di primo piano al diritto alla salute, nella sua duplice dimensione individuale e collettiva, nel ventaglio dei diritti fondamentali dell’uomo, altrettanto lampante è il fatto che lo stesso ordinamento costituzionale non attribuisca una posizione di prevalenza assoluta ad alcuno di essi, scongiurando il rischio che si venga altrimenti a creare il c.d. “Diritto Tiranno”, innanzi al quale gli altri sono destinati inevitabilmente a soccombere.
Nell’assetto delineato dal dettato Costituzionale, al contrario, gli artt. 13 e seguenti consacrano un insieme di libertà che, come osserva il giudice di Pisa, «concernono i diritti fondamentali dell’uomo e costituiscono il “nucleo duro” della Costituzione stessa» (p. 18 della sentenza), al punto da risultare non modificabili persino attraverso il procedimento di revisione costituzionale descritto dall’art. 138 Cost. Questi, pertanto, mantengono una posizione di reciproca parità che implica un’imprescindibile e costante opera di ponderazione degli interessi in gioco, onde stabilire quale possa essere quello che, in un dato momento e per determinati motivi, può di fatto estendere la propria portata a discapito degli altri, il cui nucleo essenziale resta tuttavia protetto dalle garanzie costituzionali previste (in primis la forza di legge che deve detenere l’atto che stabilisca una simile prevalenza, nonché i principi di necessità, proporzionalità, ragionevolezza, bilanciamento e temporaneità).
Sulla base di tale premessa e rilevata la palese e, per certi versi, inevitabile compressione di alcune delle nostre principali libertà fondamentali da parte della normativa di stampo emergenziale, la pronuncia evidenzia come quest’ultima prenda le forme da un atto di natura amministrativa, non avente quindi “forza di legge”, quale la delibera con cui, il 31 gennaio del 2020, il Consiglio dei Ministri ha proclamato lo stato di emergenza.
Il Tribunale di Pisa rileva poi la mancanza di ogni riferimento allo “stato di emergenza” da parte della Costituzione la quale, l’unica volta che prevede l’assegnazione di poteri particolari al Governo, lo fa attribuendo alle Camere la funzione di determinarne il contenuto, e soltanto in caso di “stato di guerra” dichiarato dal Parlamento stesso (art. 78). Né una simile situazione è contemplata dal decreto legislativo n. 1/2018 (c.d. “Codice della protezione civile”), che ha rappresentato il presupposto normativo della suddetta delibera e che, nel novero degli eventi eccezionali, non presenta il rischio biologico o sanitario com’è il virus Sars-Cov-2, ma soltanto le calamità naturali o «derivanti dall’attività dell’uomo», eventi ben distinti dall’emergenza provocata da agenti virali o batterici.
Non è neppure plausibile, a giudizio dell’organo giudicante, sussumere il Covid-19 nella categoria del “rischio igienico-sanitario” delineata dall’art. 16 del Codice, e non solo per l’assenza dei presupposti fattuali necessari per la riconduzione in tale ambito, ma anche per l’evidente attribuzione della relativa competenza alle USL e al potere legislativo regionale, inabile a contenere invece un evento di dimensione nazionale e internazionale quale appunto l’epidemia o la pandemia.
Senza contare che, anche nell’ipotesi in cui voglia ammettersi, per assurdo, che l’evento pandemico scatenato dalla diffusione del Coronavirus possa legittimamente rientrare nelle previsioni del suddetto decreto legislativo, il riconoscimento in tali ipotesi di “poteri straordinari” al Consiglio dei Ministri, ivi incluso quello di deroga rispetto ad ogni disposizione vigente, è circondato da importanti cautele, tra cui, in particolare, un carattere temporaneo predeterminato e il duplice obbligo di specifica motivazione e puntuale indicazione delle principali norme derogate, requisiti non riscontrati in nessuno dei due provvedimenti censurati dall’autorità giudiziaria.
L’impossibilità di ricondurre nell’alveo del Codice della protezione civile la delibera dichiarativa dello stato di emergenza rende evidente l’elusione del principio di legalità e dunque l’assenza di fondamento avente rango legislativo, costituendo perciò il motivo assorbente che giustifica la dichiarazione di illegittimità di entrambi i succitati provvedimenti da parte dell’autorità giudiziaria. E la stessa considerazione deve poi logicamente estendersi anche rispetto agli altri atti che hanno compresso le libertà fondamentali, partendo dall’evidenza, al riguardo, del fatto che tali limitazioni solo formalmente sono state assunte in via legislativa, mentre di fatto sono state imposte con la tecnica amministrativa dei D.P.C.M.
In tale ambito, pertanto, si innesta l’esame, da parte dell’autorità giudiziaria, del decreto-legge n. 6/2020 e della corrispondente “delega in bianco”, illegittima ex art. 76 Cost. per il suo carattere generico e generale, a favore del Governo e in particolare del Presidente del Consiglio, tradotta, nei fatti, nel potere di innovare l’ordinamento giuridico tramite l’illimitata promulgazione del D.P.C.M., ovvero «un atto monocratico, di titolarità e responsabilità politica del presidente del consiglio dei ministri, come tale sottratto al vaglio del Presidente della Repubblica, del Parlamento, della Corte Costituzionale e della Corte dei Conti» (p. 24 della sentenza): emerge dunque chiaramente, oltre all’evidente eccesso di discrezionalità ammessa, anche la palese elusione della riserva di legge, oramai ridotta a “riserva di atto amministrativo”, e quindi del principio di legalità, sia formale che sostanziale, consacrati a livello costituzionale.
Il vulnus motivazionale e l’illegittimità amministrativa della dichiarazione di emergenza
Neppure il decreto legislativo che contiene il Codice della protezione civile, e che certamente rappresenta un atto dotato di forza di legge, fornisce dunque l’appiglio normativo per legittimare la delibera dichiarativa dello stato di emergenza, senza contare che, pur nell’ipotesi in cui lo avesse, risulterebbe privo dei requisiti essenziali per poter essere considerato valido ed efficace data la carenza di motivazione e indicazione specifica delle norme derogate.
Requisito argomentativo che assume ulteriore centralità, ai fini della pronuncia di illegittimità, se si considera l’obbligo di precisa motivazione in capo al provvedimento amministrativo posto dall’art. 3 della legge n. 241/1990, pena, in difetto, la nullità del medesimo (art. 21-septies della stessa legge), conclusione cui giunge il Tribunale rispetto agli atti istitutivi dello stato di emergenza e del lockdown.
Il vulnus motivazionale risulta poi aggravato non tanto dalla tecnica dell’argomentazione per relationem, quanto per il fatto che i verbali del Comitato Tecnico Scientifico, oggetto di tale rinvio, «non solo sono stati resi noti dopo lungo tempo, o addirittura in prossimità della scadenza di efficacia dei D.P.C.M., ma addirittura classificati come “riservati”, o meglio “secretati” (come i cinque verbali datati 28 febbraio, 1 marzo, 7 marzo, 30 marzo e 9 aprile 2020, del CTS, che hanno costituito la base delle misure di contenimento adottate per l’emergenza COVID, con omissione degli allegati e documenti sottoposti alle valutazioni del CTS), vanificando di fatto la stessa procedura di accesso agli atti e rendendo impossibile la stessa tutela giurisdizionale» (p. 36 della sentenza).
Alla luce della “forza” e della profondità dell’analisi argomentativa sviluppata dal Giudice di prime cure, quindi, «non si ritiene di poter dubitare della illegittimità e invalidità dei D.P.C.M. che hanno imposto la compressione di diritti fondamentali» (p. 36 della sentenza), dovendosi al contempo rilevare, quale effetto fisiologico della dichiarazione di illegittimità della delibera del 31.01.2020, l’invalidità di «tutti i successivi provvedimenti emessi per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID» (p. 23 della sentenza), conseguentemente disapplicati dall’organo giudicante nel caso sottoposto alla sua attenzione (culminato nell’assoluzione con formula piena dei due imputati dal reato di inosservanza del provvedimento dell’autorità ex art. 650 c.p. per violazione del divieto di circolazione in “epoca lockdown”).
L’ordinamento costituzionale: quando la forma è anche sostanza
La libertà personale, pertanto, protetta dall’inviolabilità dell’“Habeas Corpus” sintetizzato dall’art. 13 Cost. e difesa tramite l’obbligo di motivazione abbinato alla duplice riserva di legge e di giurisdizione, e il diritto di circolazione e movimento garantito dall’art. 16 della Carta costituzionale, riacquistano dunque la propria pienezza, ritrovando nella giurisprudenza, nel senso più latino del termine, culla e scudo del proprio nucleo essenziale.
Il consistente apparato argomentativo contenuto nella sentenza del Tribunale di Pisa non oscura comunque una certezza: come infatti previsto dai suddetti riferimenti costituzionali, l’ordinamento delineato dalla Suprema Carta non impedisce ogni forma di compressione alle libertà fondamentali dell’uomo, ma le ammette espressamente a condizione che vengano rispettate le cautele delineate dalle stesse norme costituzionali, in primis la forma legislativa del corrispondente atto e l’obbligo motivazionale.
Le accortezze che la Costituzione riserva al trattamento dei diritti fondamentali dell’uomo deriva dal carattere ontologico dei medesimi, naturale, preesistenti all’uomo e alla Costituzione stessa, che giustamente si limita a prendere atto della loro esistenza, circondandoli di idonee garanzie di natura non solo formale, posto che l’inattaccabilità che caratterizza i diritti in questione, pur ammettendone la compressione a determinate condizioni, rende evidente come la forma rappresenti, in tale ambito, sostanza e concreto strumento di tutela delle libertà fondamentali dell’uomo.
Se quindi si possono certamente ritenere comprensibili e giustificate, vista l’urgenza e la gravità della crisi pandemica, le misure restrittive adottate in via straordinaria dal Governo, è al contempo doveroso constatare come simili imposizioni debbano rispettare i crismi della Carta Costituzionale, che innanzitutto assegna al Parlamento, custode della sovranità popolare e del potere legislativo, la facoltà di limitare le libertà fondamentali, con evidente riprova del fatto che, in materia costituzionale, la forma dei diritti inviolabili deve ritenersi sempre e comunque sostanza dei medesimi.
Il che non equivale a dire che sia tout court proibito restringere il contenuto di determinate libertà fondamentali qualora ciò sia reso necessario dalla tutela della salute pubblica, come avvenuto durante la lotta alla diffusione del contagio da Covid; piuttosto ciò significa affermare che una qualunque simile compressione possa avvenire soltanto nel rispetto del diritto e, in particolare, del diritto di caratura costituzionale, che funge da strumento e guida per la protezione del “cuore” di ciascuna libertà, ponendo quale limite al bilanciamento e alla prevalenza di due contrapposti interessi la dignità umana, come nel tempo ribadito dalle autorevoli dottrina e giurisprudenza citate dal giudice pisano.
Dignità che, però, è oggi seriamente messa a repentaglio a fronte dell’esclusione di «una categoria di persone dalla vita sociale» (p. 33 della sentenza), a nulla essendo valsi i ripetuti moniti di eminenti ex presidenti della Corte Costituzionale o le iniziative di solerti e attenti giuristi, tra le quali spicca la segnalazione all’Autorità Garante per la protezione dei dati personali affinché intervenga e ponga fine alle violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo e, in particolare, della privacy, perpetrate attraverso lo pseudo-obbligo del Green Pass prima e del Super Green Pass poi, noncuranti del rispetto dei già citati ed inviolabili principi di legalità, proporzionalità e ragionevolezza1.
La gestione ordinaria di un evento straordinario: possono ritenersi legittime, oggi, le norme che impongono il Green Pass e la vaccinazione anti-Covid?
La sentenza in commento induce a soffermarsi su quale possa essere ora il destino delle norme attualmente in vigore, a partire da quelle contraddistinte dal più accentuato carattere restrittivo quali quelle in tema di Green Pass, nella duplice versione “base” e “super”, e di obbligo vaccinale, al momento previsto in capo ai soggetti ultra-cinquantenni.
Oltre all’invalidità derivata che inficia l’efficacia dei medesimi per effetto dell’illegittimità della primordiale dichiarazione di emergenza, si registra un ulteriore elemento di criticità, rappresentato dalla violazione del termine massimo di durata dello stato di emergenza, che ai sensi dell’art. 24, Codice della protezione civile, non può superare i 12 mesi, prorogabili un’unica volta in egual misura; orbene, come evidenziato dal Tribunale di primo grado, quand’anche la dichiarazione del 31.01.2020 si potesse ritenere inverosimilmente legittima, altrettanto non potrebbe dirsi per i conseguenti provvedimenti, anche di legge, i cui effetti si protraggano oltre la data del 31.01.2022, alla luce del superamento, in tale data, del termine massimo pari a 24 mesi complessivi2.
Dato però l’impatto che tali norme quotidianamente esercitano sui diritti fondamentali dell’uomo, che se svuotati «nel loro nucleo essenziale (…) finiscono per essere degradati (…) a meri simulacri» (p. 34 della sentenza), non può ulteriormente ammettersi una tale compressione del “cuore” degli stessi in spregio ad ogni principio costituzionale, soprattutto quando si va ad incidere sulla libertà di autodeterminazione della persona e, non ultimo, il diritto al lavoro e ad una retribuzione equa e dignitosa, nel cui ambito si innesta anche la seccante questione afferente il ruolo di controllo cui gli organismi pubblici hanno in parte abdicato a favore (o forse discapito) dei datori di lavoro.
Se dunque, quantomeno nelle aule giudiziarie, il contenuto minimo e indefettibile delle libertà fondamentali ha riacquistato la propria ampiezza originaria, pare oggi possibile e doveroso, complici i positivi risultati conseguiti nella lotta al Coronavirus dagli organi politici, dalla comunità scientifica e, in generale, dalla società tutta, sostenere che i tempi siano maturi affinché il Parlamento si riappropri del proprio potere di normazione primaria e si spogli del riduttivo «ruolo di mero ufficio di conversione in legge dei decreti del Governo», frutto perlopiù dell’insidioso «passaggio dallo stato di emergenza alla gestione ordinaria dell’epidemia, con il conseguente venir meno dei presupposti di temporaneità e, dunque, di straordinarietà giustificativi dell’adozione dei decreti legge e conseguentemente dei D.P.C.M.» (p. 31 della sentenza), ritornando ad assicurare la tutela dell’incomprimibile essenza di ogni libertà fondamentale, pur nell’indispensabile perseguimento della legittima salvaguardia della salute collettiva.
Si tratta, in sostanza, di rientrare negli argini definiti dalla Carta Costituzionale, gestendo gli eventi ordinari con strumenti ordinari e fronteggiando le emergenze eccezionali tramite mezzi straordinari che rispettino le cautele previste per tali ipotesi dalla Suprema Carta; si tratta, in altre parole, di riprendere e tenere ben a mente l’insegnamento, rievocato dalla coraggiosa pronuncia in commento, dei Padri Costituenti, che respingendo la proposta di introduzione nel dettato costituzionale di uno “stato di emergenza” per occasioni diverse da quelle belliche, hanno consapevolmente scelto di rifiutare ulteriori occasioni di compressione dei diritti fondamentali: infatti, come affermato a chiare lettere dall’ex Presidente della Corte Costituzionale, nonché attuale Ministro della Giustizia, «non c’è un diritto speciale, anche in emergenza. La Costituzione sia bussola per tutti» (p. 19 della sentenza).
Andrea Tundo
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo
@tundo_andrea
1 Si allude all’esposto avanzato al Garante Privacy pochi giorni addietro da 25 giuristi “capeggiati” dagli Avv.ti Pelino Enrico, Lisi Andrea e Fulco Diego, che registra una crescente adesione.
2 Nonostante sia stato patrocinato altresì che, nel caso di specie, non si potessero oltrepassare i 18 mesi, cfr. M. Calamo Specchia, relazione scritta audizione del 06.10.2021 in Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica, evocata dal Giudice Dott.ssa Manuali Lina.