L’interesse per lo stress e per le sue ripercussioni sulla salute è progressivamente aumentato nel corso degli ultimi trent’anni. Di fatto, gli studi sulla natura del fenomeno, sia sulla sua essenza positiva, nella quale un certo grado di stress agisce da “attivatore”, sia sulla sua natura negativa, che genera malessere e vere e proprie patologie, si sono incrementati.
Questo è reso evidente dall’evoluzione storica delle cause provocanti le patologie da lavoro: prima prevalentemente a eziologia monofattoriale, oggi, invece, dirette verso cause multifattoriali che rendono assai difficile il poter stabile una correlazione di causalità tra l’alterazione di un determinato parametro biologico o una particolare patologia e lo stress da lavoro.
A questa considerazione si aggiungono poi tutte le difficoltà giuridiche ed economiche legate all’assenteismo per malattia (Per un approfondimento in materia si consulti G. Alessandri, R. Monte, Il fenomeno dell’assenteismo aziendale – Come gestirlo, HR Administration/2, in Bollettino ADAPT, n. 20/2014).
Di recente pubblicazione in materia è l’analisi pubblicata su The Lancet (Long working hours and risk of coronary heart disease and stroke: a systematic review and meta-analysis of published and unpublished data for 603838 individuals, The Lancet, 2015), inerente la relazione tra orari di lavoro prolungati, che attivano reazioni da stress, e l’insorgenza di cardiopatie.
Questa meta-analisi si è basata sui dati di 25 studi, valutando gli effetti del lavoro, su un campione di 603838 individui, seguiti in media 8 anni e mezzo. Essa ci rivela una relazione diretta tra il numero di ore lavorative settimanali e il rischio di ictus: gli individui che lavorano tra le 41 e le 48 ore a settimana hanno un rischio di ictus maggiore (+ 10%) rispetto alle persone che si limitano all’orario standard (40 ore settimanali). Il pericolo, però, aumenta fino al 27 % se si lavora dalle 49 alle 54 ore e arriva al 33% in quelle persone che superano abitualmente le 55 ore lavorative settimanali.
Questi dati, sebbene non dimostrabili con una relazione causale del fenomeno, evidenziano l’esistenza del legame tra le troppe ore di lavoro e l’aumento del pericolo di ictus e cardiopatie.
Questo studio, per chi opera nel campo dell’organizzazione del lavoro, suscita particolare interesse, poiché conferma l’inadeguatezza di logiche aziendali, poco coscienziose, incentrate al miglior profitto a svantaggio della salute dei dipendenti e di tutti quei lavori autonomi in cui il confine fra vita privata e lavorativa svanisce.
Non solo. Una recente meta-analisi di J. Goh, J. Pfeffer, S. A. Zenios, Workplace stressors & health outcomes: Health policy for the workplace, Behavioral Science & Policy, 2015, Vol. 1, n.1, pp. 43–52 ha esaminato 228 studi sulle condizioni di lavoro che indeboliscono la salute. Si evidenzia come una mancanza di equità percepita all’interno dell’organizzazione, uno scarso sostegno sociale, un orario di lavoro prolungato, ritmi di lavoro elevati siano condizioni nocive per la salute, nonché la mancanza di forme di conciliazione vita-lavoro.
I dati di questo secondo studio ci inducono a riflettere su un aspetto inerente gli studi dell’organizational behaviour: il contratto psicologico fra il lavoratore e l’organizzazione.
Esso è lo strumento di relazione che si fonda su precise norme sociali e interpersonali e viene utilizzato per ridurre l’incertezza della relazione e per regolare il rapporto su tutti gli aspetti delle condizioni di lavoro non formalmente inseriti nei contratti di lavoro.
Nel momento in cui le aspettative di uno dei due contraenti o di entrambi vengono violate, si produce uno squilibrio tra il contratto formale e quello psicologico, sottovalutando le conseguenze nocive per la controparte.
A volte, invece, il senso di appartenenza e sviluppo di carriera diventa strettamente collegato a quanto il lavoratore sente significativo il suo contributo, quanto può partecipare alla soluzione dei problemi, quanto è efficace quello che produce e a quanto può impegnarsi. Questi elementi, insieme a fattori individuali, fattori lavorativi e fattori organizzativi permettono un eccessivo “spendersi” oltre gli standard previsti, compromettendo lo stato di salute.
Dall’insieme delle evidenze riportate, considerare la correlazione fra stress e malattie croniche significa affermare che il soggetto in ogni contesto di vita, e, quindi, anche in quello lavorativo, si immerge con il corpo e con la mente.
Ogni attività lavorativa, anche quella più manuale e tecnica, impegna la persona sia a livello fisico sia a livello psicologico e ignorare quest’ultimo aspetto comporta una serie di esiti negativi che coinvolgono, non solo il benessere del lavoratore, ma, anche, la produttività dell’organizzazione aziendale.
Per tale ragione, le iniziative di prevenzione e promozione alla salute dovrebbero racchiudere, non solo azioni per ridurre i fattori di rischio modificabili, (fumo, abuso di alcol, sedentarietà e cattiva alimentazione) ma, anche, rappresentare un’occasione di riprogettazione di modelli organizzativi strutturati e incentrati sul miglior andamento produttivo conciliabile con lo stato di salute delle persone che costituiscono l’azienda.
I lavoratori, infatti, se accompagnati da un clima e una cultura organizzativa orientata alla salute e al benessere, possono migliorare sensibilmente la propria adattabilità ai cambiamenti organizzativi. Possono raggiungere livelli più ampi di autonomia, responsabilità e creatività, elementi questi che creano soddisfazione e benessere e migliorano la gestione, la valorizzazione e la produttività delle risorse umane da parte dell’azienda.
Fabiola Silvaggi
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@FabiolaSilvaggi