Veloci nel rottamare le vecchie tutele, molto meno nel predisporre un moderno regime di ricollocazione per chi perde il lavoro. Dopo oltre un anno di attesa, e con non poche modifiche rispetto all’impianto originario, sembrerebbe che il secondo pilastro del Jobs Act stia ora per partire. Parliamo del capitolo fondamentale sulle politiche attive, per il quale il condizionale è tuttavia d’obbligo essendo uno dei fronti del mercato del lavoro in cui si registra amaramente una enorme distanza tra la legge scritta e la pratica quotidiana. Già con il pacchetto Treu del 1997 e ancor piú con la legge Biagi di cinque anni dopo è pian piano emersa nel nostro Paese, quasi contemporaneamente rispetto alle nazioni che oggi consideriamo un modello, la coscienza che alcune certezze che avevano guidato il Novecento industriale stavano rapidamente venendo a meno.
Prima fra tutte l’idea che il medesimo posto di lavoro potesse riempire l’intera carriera di un lavoratore, che dopo la sua formazione entrava in una impresa e vi usciva solo una volta pensionato. Questo era reso possibile da mercati stabili, per i quali il ruolo stesso del lavoratore, visto come consumatore dei beni che egli stesso produceva, era proprio garanzia di stabilità. Si poteva produrre in maniera costante e controllata perchè si conosceva e si governava anche la domanda dei beni, sia attraverso i salari che attraverso altri strumenti propri del sistema di welfare pubblico. Entrato in crisi questo equilibrio, per molteplici ragioni (globalizzazione, sviluppo tecnologico, dinamiche demografiche e altro ancora) si è introdotta una notevole dinamicità all’interno dei percorsi professionali e oggi un ragazzo che si affaccia al lavoro sa bene che il posto fisso non puó neanche vagamente essere contemplato nel suo orizzonte ma che lo aspetta una carriera composta da diverse fasi.
A fronte di questa consapevolezza teorica, la logica porterebbe a costruire strumenti per accompagnare i lavoratori nei sempre più frequenti periodi di transizione da un posto all’altro, valorizzandone le competenze e le attitudini e aiutando le imprese ad individuare i lavoratori a essere necessari. Un grande aiuto viene oggi anche dalla tecnologia, con la possibilità di costruire potenti banche dati per l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro che ben potrebbero costituire l’infrastruttura di quella borsa nazionale del lavoro di cui si parla oramai da troppi anni. Purtroppo di buone pratiche in questo senso ne abbiamo viste ben poche, salvo esempi virtuosi di qualche regione italiana. Le numerose norme approvate sul tema, legge Biagi in primis, sono rimaste sistematicamente prive di attuazione pratica. E anche le ingenti risorse pubbliche spese per la borsa del lavoro non hanno sin qui prodotto neppure una minima infrastruttura tecnologica comparabile a quella presente in molto altri Paesi.
Prova della scarsa considerazione di questo pilastro centrale di un moderno mercato del lavoro è anche la lentezza che ha caratterizzato il capitolo politiche attive del Jobs Act. Inoltre, dopo il processo di decentramento avviato con la legge Treu, si è ora tornati a una concezione centralistica di dubbia efficacia già fallita in un non lontano passato e che rischia, se non sviluppata entro una vera logica sussidiaria, di essere lontana dai territori e dalle persone. Come ha confermato il fallimento di Garanzia Giovani, è ancora agli inizi il processo di cooperazione tra attori pubblici e operatori privati mentre fermo sulla carta da oramai troppi anni è il contratto di ricollocazione e cioè la tutela di nuova generazione pensata per superare l’articolo 18 e che in sostanza prevede un insieme di misure personalizzate, tra cui una dote economica, per la presa incarico e il successivo reinserimento professionale di chi ha perso il lavoro.
Quello che ci possiamo augurare è che alla coscienza teorica della necessità di un sistema di politiche attive segua una vera azione politica e pratica che dia vita a un percorso che coinvolga tutte le persone di buona volontà che si occupano della grande emergenza del mercato del lavoro italiano. A partire dal sistema formativo, vero volano per l’occupazione giovanile, passando per gli operatori pubblici che molto hanno da imparare da quelli privati, che a loro volta devono svolgere al meglio la loro funzione coniugando in modo moderno la conciliazione tra funzione pubblica e interesse d’impresa. Attendiamo ora fiduciosi l’esito pratico della ennesima riforma annunciata, sperando che questa volta gli errori compiuti negli anni passati siano un monito per fare meglio e bene e non solamente occasione di uno scontro politico e ideologico sui temi del lavoro che ha lasciato indietro troppe persone in situazioni di grande difficoltà su quello che è il bene più prezioso per una società che vuole essere più giusta perché, al tempo stesso, più efficiente e anche inclusiva.
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt
Direttore ADAPT University Press
Coordinatore scientifico ADAPT
Pubblicato anche su Avvenire, 8 settembre 2016