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Bollettino ADAPT 11 novembre 2019, n. 40
Il contrasto giurisprudenziale.
Imperversano nelle aule dei tribunali italiani sempre più casi di lavoratori licenziati per superamento del periodo di comporto i quali, nel tentativo di “paralizzare” gli effetti del licenziamento, eccepiscono che la malattia sarebbe derivata da uno status invalidante che, seppure noto al datore di lavoro, non sarebbe stato da questi tenuto in alcun conto.
Allo stato, si registrano quattro provvedimenti di sicuro interesse (a quanto consta, tutti inediti): Trib. Milano, sent. n. 2857/2016; Trib. Milano, ord. n. 1883/2017; Trib. Parma, ord. 17 agosto 2018; Trib. S.M. Capua Vetere, ord. n. 20012/2019.
Di questi, due accolgono le tesi difensive dei lavoratori (id est: Trib. Milano, sent. n. 2857/2016 e Trib. S.M. Capua Vetere, ord. n. 20012/2019) con argomentazioni che, peraltro, stimolano ben più di una riflessione.
Le pronunzie a favore dei lavoratori.
I Tribunali che hanno accolto le tesi difensive dei lavoratori, ed annullato i recessi datoriali, hanno ritenuto dirimente il fatto che “il licenziamento non costituisce … una discriminazione diretta, ma una discriminazione indiretta”, giacché l’esercizio del potere datoriale di recesso costituirebbe applicazione di “una disposizione apparentemente neutra (la normativa sul comporto) che però mette il lavoratore (portatore in questo caso di un … handicap) in una posizione di particolare svantaggio” (cfr. Trib. Milano, sent. n. 2857/2016).
Ciò con la conseguenza che sarebbe “onere della parte datoriale provare che l’intero periodo di assenza … era assolutamente indipendente dalla … patologia” invalidante (cfr. Trib. Milano, sent. n. 2857/2016).
Tali conclusioni sono derivate dalla – diremmo noi – ‘nuda e cruda’ applicazione di una certa giurisprudenza europea, secondo cui “una differenza di trattamento può consistere nell’effetto sproporzionatamente pregiudizievole di una politica o di una misura generale che, se pur formata in termini neutri, produce una discriminazione nei confronti di un determinato gruppo” (CEDU, sent. 13 novembre 2007, D.H. c. Repubblica Ceca; CEDU, 2013/335).
Inoltre, gli estremi della discriminazione indiretta sono stati ravvisati anche con riguardo alla mancata comunicazione della scadenza del periodo di comporto a quei lavoratori che versavano in condizioni particolarmente gravi. Ciò che varrebbe – ed è questo il punto – anche laddove tale obbligo non sia stato codificato dal contratto collettivo applicato, bensì ricavato dalla mera applicazione di comuni canoni di buona fede e correttezza.
Al riguardo alcuni Tribunali hanno ritenuto che il datore di lavoro debba senz’altro rendere edotto il lavoratore, le cui condizioni fisiche siano piuttosto gravi, dell’approssimarsi del giorno ultimo di comporto, così da consentire al dipendente di esercitare l’opzione – ove prevista – per un eventuale prolungamento di quel periodo (Trib. S.M. Capua Vetere, ord. n. 20012/2019).
Del resto, secondo quella giurisprudenza, tra i contraenti vige un dovere di reciproca cooperazione nel “limite dell’apprezzabile sacrificio”, per modo che, in casi particolarmente gravi, “la comunicazione datoriale è sicuramente meno gravosa rispetto al dovere di attivarsi per chiedere informazioni da parte del lavoratore gravemente ammalato” (Trib. S.M. Capua Vetere, ord. n. 20012/2019).
La matrice di queste ultime decisioni è, a ben vedere, di natura prettamente solidaristica, posto che – secondo i menzionati Giudici – proprio la solidarietà imporrebbe al datore di lavoro “un comportamento positivo atto a preservare al lavoratore la possibilità di riprendere la propria attività” (Trib. S.M. Capua Vetere, ord. n. 20012/2019).
Le pronunzie a favore dei datori di lavoro.
Invece, i Tribunali che si sono pronunciati a favore delle tesi datoriali hanno dato rilievo preminente a ciò che l’ordinamento interno già prevede, ovvero “meccanismi difensivi per il lavoratore che versi in stato di disabilità idonei ad evitare una discriminazione indiretta”, tra cui il c.d. “congedo per cure” previsto dall’art. 7 del d.l. n. 119/2011, tra l’altro “non rientrante nel periodo di comporto” (cfr. art. 7, co. 3, ult. cit.).
In questo caso, muta la prospettiva adottata dal Giudicante per la soluzione della fattispecie, in quanto si tende a verificare anzitutto la presenza di correttivi, nell’ordinamento italiano, con cui correggere potenziali disparità di trattamento.
Prospettiva, questa, che tiene anzitutto conto delle peculiarità del nostro ordinamento, ivi inclusa quella per cui “non vi è … alcuna norma di legge che preveda un periodo di comporto più lungo per i soggetti affetti da disabilità e tale vuoto normativo non può essere supplito dal Giudice” (Trib. Parma, ord. 17 agosto 2018).
Sicché, la questione di specie andrebbe risolta non tanto applicando ipso facto tutele coniate dal diritto vivente europeo – anche perché verosimilmente contraddistinte da peculiarità insiste nell’ordinamento di un certo Stato membro che, pertanto, potrebbero non sussistere in quello italiano – quanto ricercando, nel vigente sistema giuslavoristico, eventuali vuoti di tutela che non possono essere colmati con gli ordinari rimedi.
Trattasi di un’operazione non facile, ma di certo più rispondente all’esigenza di ricercare una coerenza sistematica tra le varie norme del diritto nazionale e, quindi, di ricostruire l’intenzione del Legislatore, ovvero la ratio della disposizione invocata.
Alla ricerca di un bilanciamento tra libertà di recesso e tutela dei lavoratori disabili.
In questo processo di ricerca di (eventuali) vuoti di tutela e dei relativi (potenziali) rimedi, non può trascurarsi quello costituito dalla cooperazione tra le parti che hanno stipulato il contratto, ossia il datore di lavoro ed il lavoratore.
Nella prassi, invero, accade sovente che il lavoratore eccepisca il proprio stato invalidante, e dunque la connessione di quest’ultimo con il superamento del periodo di comporto, soltanto in sede di impugnazione del licenziamento e giammai prima di esso; né, tantomeno, il lavoratore si premura di notiziare il datore di lavoro delle possibili evoluzioni della propria malattia, sì da consentire a quest’ultimo di preventivare ogni debito accorgimento organizzativo per allocare efficientemente le risorse disponibili.
Eppure, l’interesse del lavoratore a conservare il posto di lavoro deve, in qualche modo, collimare con quello del datore di lavoro a conoscere se potrà, in futuro, avvalersi della prestazione lavorativa del dipendente malato, oppure no.
La composizione dei diversi interessi in gioco, considerata la natura “a prestazioni corrispettive” del contratto di lavoro, è possibile ma solo se le parti decidano di eseguire il contratto secondo correttezza (cfr. art. 1375 c.c.), ossia di cooperare tra loro.
Cooperazione che implica, con riguardo al lavoratore, la comunicazione di ogni notizia utile a far sì che il datore di lavoro possa far fronte alla sua assenza – anche sostituendo temporaneamente il dipendente malato – e, con riguardo al datore di lavoro, l’adozione di qualche accortezza in più (ad es.: richiedendo al lavoratore, in prossimità dello scadere del periodo di comporto, se è sua intenzione/possibilità rientrare) al fine di salvaguardare, per quanto possibile, il posto di lavoro e contenere il rischio di un eventuale contenzioso.
A ben vedere, dunque, quella dianzi auspicata rappresenta una “rivoluzione” più culturale che non giuridica (non ritenendo possibile allo stato, invece, sanzionare il datore di lavoro per comportamenti a cui non è tenuto né dalla disciplina legale, né da quella contrattuale).
Al contempo, si auspica nondimeno che, nelle more di questa ritrovata collaborazione, i Tribunali e le Corti del merito possano orientare le proprie sensibilità anche sulla base del comportamento tenuto da ambo le parti prima ed in costanza della sospensione del rapporto.
Francesco Marasco
Studio Legale de Berardinis Mozzi