Michele Tiraboschi: "Cosa manca nel Jobs Act"

Ormai si attendono solo i decreti attuativi e la riforma del lavoro tracciata dal governo prenderà forma concreta. Dopo il voto definitivo del Senato, il presidente del consiglio, Matteo Renzi, ha espresso, con il suo stile, la propria soddisfazione su twitter: «Il Jobs Act diventa legge. L’Italia cambia davvero. Questa è #lavoltabuona. E noi andiamo avanti».
 
 
Per offrire spunti di riflessione e approfondimento abbiamo chiesto il parere di Michele Tiraboschi, già collaboratore dell’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, uno degli interlocutori più autorevoli in materia come direttore del Centro studi internazionali e comparati “Marco Biagi” dell’Università di Modena e Reggio Emilia dove insegna come professore ordinario di Diritto del lavoro. Dirige la rivista di Diritto delle relazioni industriali e scrive, come editorialista, su Il Sole 24 Ore e Avvenire. È il coordinatore scientifico di Adapt, l’”Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e relazioni internazionali” che rende pubblica e accessibile sul web molta della sua produzione scientifica.
 
 
Che giudizio complessivo ritiene di poter dare sulla legge delega al governo in tema di lavoro (cosiddetto Jobs act)? Un noto economista come Francesco Giavazzi ha scoperto con ritardo che la modifica dell’articolo 18 varrà solo per i nuovi assunti. Alla sua richiesta di estendere la disciplina a tutti i rapporti di lavoro in essere, il giuslavorista Ichino ha spiegato che non si può fare diversamente perché il sistema della flexsecurity crollerebbe davanti alla marea dei licenziamenti possibili. È davvero questa la situazione nel Paese?
 
«Che il contratto a tutele crescenti, così come formulato nella delega, rischi di creare una nuova apartheid nel mercato del lavoro italiano lo diciamo da mesi. Il fatto che i commentatori se ne siano accorti solo negli ultimi giorni dice molto sul livello del dibattito su questi temi in Italia, spesso tutto concentrato in scontri ideologici sull’articolo 18 senza comprendere la vera portata, o meno, dei testi in discussione. Non è mia intenzione entrare in questo dibattito, voglio solo ricordare che il premier aveva lanciato la battaglia contro l’articolo 18 soprattutto come totem culturale simbolo di un mondo del lavoro che non esiste più. Il compromesso di cui la delega è frutto segna una sconfitta in questa battaglia. A ciò si aggiunge il fatto, fondamentale, che tutte le tematiche centrali della trasformazione del lavoro, come l’impatto della tecnologia, dei cambiamenti ambientali, delle sfide della demografia, non vengono tenute in considerazione».
 
 
Più in generale, non è insostenibile il costo di un sistema di flexsecurity reale simile a quello scandinavo? Non c’è il rischio di avere solo l’incentivo all’uscita (licenziamenti) con servizi di ricollocazione inadeguati per un’economia in recessione?  
 
«Prendere spunto da modelli virtuosi è un primo passo, non bisogna però limitarsi a copiare interamente un sistema. Se infatti non si tengono conto delle differenze storiche, economiche e sociali si rischia di non ottenere alcun effetto se non effetti opposti. Ed è chiaro a tutti che i paesi scandinavi hanno caratteristiche diverse dal nostro, basti pensare che la Svezia ha meno di 10 milioni di abitanti e la Danimarca 5. È necessario costruire un sistema di politiche attive che sviluppi un incontro virtuoso tra sistema pubblico e privato, ed è necessario che tutti gli operatori in questione non si limitino a svolgere mera attività di collocamento ma che aiutino i lavoratori a proseguire la loro formazione, individuare le loro competenze e colmare i vuoti che il rapidissimo sviluppo tecnologico crea. Per questo certo ci vogliono fondi, ma serve prima la volontà di farlo».
 
 
Non esiste, a suo giudizio, un conflitto tra la liberalizzazione dei contratti a termine, già avvenuta con il primo decreto Poletti, e il contratto a tutele crescenti?  Non siamo di fronte, di fatto, al superamento della utilità del contratto di apprendistato?
 
«Con questa domanda coglie uno dei nodi critici della politica del lavoro dell’attuale governo. Se con il decreto Poletti l’assunto di partenza era che ormai il 70 per cento dei nuovi contratti sono a tempo determinato, e quindi bisognava aiutare e liberalizzare quell’istituto, ora, con la legge delega, si ribadisce che il contratto a tempo indeterminato è la vera tipologia che dobbiamo favorire. Sicuramente chi risente maggiormente di questa contraddizione è il contratto di apprendistato: infatti il nuovo contratto a tutele crescenti avrà agevolazioni economiche, l’eliminazione di alcune tutele e meno vincoli dell’apprendistato, come per esempio nessun limite di età e l’assenza della componente formativa. Soprattutto quest’ultimo aspetto è grave poiché proprio la presenza di formazione seria sul posto di lavoro può consentire di restringere quel gap tra competenze del lavoratore e competenze richieste dal mondo dell’impresa».
 
 
Sono davvero troppe le forme contrattuali esistenti in Italia?  Che valutazione dare dopo anni di applicazione, del contratto interinale come dello staff leasing? Non hanno provocato una frattura sempre più estesa tra lavoratore dipendente ed effettivo datore di lavoro?
 
«Posto che in troppi credono ancora nella leggenda delle 40 forme contrattuali, numero ottenuto dalla combinazione di diversi istituti e diverse formule, non credo che il problema stia solo nel numero di contratti. Altrimenti rischiamo di attaccare a spada tratta i contratti a progetto, per esempio, senza sapere se senza questi i lavoratori dei call center (che protestano proprio in questi giorni) non avrebbero un posto di lavoro. Lo staff leasing non si è mai sviluppato seriamente in Italia, penso che avrebbe diversi lati positivi. Per quanto riguarda il lavoro interinale spesso non è stato inteso nelle sue vere potenzialità, ma solo come manovalanza a breve termine e non come possibilità, tramite le agenzie, di un incontro vero tra competenze richieste dall’impresa e professionalità offerte dai lavoratori».
 
 
Più in generale, ritiene necessaria preventivamente l’adozione di una politica industriale coerente con la riforma del lavoro?  
 
«Credo che la vera politica industriale sia aprire una seria riflessione sulle trasformazione che il nostro sistema produttivo sta vivendo. Ormai i cicli di vita del prodotti sono sempre più brevi, e con essi i cicli di vita dei mestieri a loro connessi. Dobbiamo partire da qui, concentrarsi su quali sono i mestieri del futuro e investire in professionalità. In un paese in cui domanda e offerta di lavoro non si incontrano è difficile costruire una politica industriale volta ad attrarre cospicui investimenti stranieri. Per costruire nuove professionalità occorre partire dalla scuola, con percorsi di formazione che rispondano anche alle esigenze del mercato del lavoro. Questo vale molto più di grandi politiche industriali ed ha, oltretutto, costi inferiori».
 
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