Il dado è tratto: modernizzazione o conservazione? Era questo l’interrogativo sollevato da Marco Biagi, nel lontano marzo del 2002, pochi giorni prima del suo assassinio per mano delle Brigate Rosse e pochi giorni prima della imperiosa manifestazione della Cgil al Circo Massimo contro la riforma del lavoro di Silvio Berlusconi.
Poco pare cambiato da allora. Ancora una volta il Paese è spaccato a metà, in una eterna contesa guelfi contro ghibellini, tra i favorevoli e i contrari alla riforma dell’art. 18. Eppure, almeno in termini politici e al netto dei devastanti effetti della crisi su lavoratori e imprese, una vera e propria era geologica è passata. Mai nessuno avrebbe immaginato, solo fino a pochi mesi fa, che la sfida alla norma simbolo del diritto del lavoro italiano venisse lanciata in prima persona dal segretario di quel Partito Democratico che, nel 2002, si presentò compatto al fianco della Cgil nel bloccare il processo di modernizzazione del nostro mercato del lavoro.
Una sfida voluta e cercata, quella di Matteo Renzi, ansioso di confermarsi come il paladino del cambiamento proprio nella plastica contrapposizione con un sindacato ancora coi piedi ben piantati nel Novecento industriale e per questo incapace di leggere le trasformazioni economiche e sociali del Paese. Un sindacato che, fino a ieri, ha saputo esercitare un paralizzante potere di veto non solo nelle grandi imprese, ma anche nella politica, nella scuola e nella macchina pubblica e che, forse anche per questo, registra oggi un drastico calo di consensi e popolarità. Un sindacato dei pensionati e da pensionare nell’immaginario di molti che non sono neppure in grado di distinguere l’oltranzismo di un Landini dal verace riformismo di un Bonanni.
Certo è che, come denunciava già negli anni Ottanta Walter Tobagi, le forze spontanee del mercato hanno oggi raggiunto un nuovo punto di equilibrio che tiene, sì, conto delle rigidità sindacali, ma solo per aggirarle, vuoi nel sommerso, vuoi con la delocalizzazione, vuoi anche con una pletora di contratti atipici, stage e partite IVA che mai hanno conosciuto le antiche tutele del lavoro industriale a cui quella parte del sindacato incapace di immaginare il futuro ancora oggi si appella. Che il mondo sia radicalmente cambiato lo ha invece capito benissimo Renzi, consapevole che la battaglia finale sull’art. 18 possa rappresentare, per la sua enorme carica simbolica e per le attese delle istituzioni centrali europee, quel segnale di consacrazione di un leader che è diventato grande e dagli annunci passa finalmente ai fatti riuscendo là dove tutti prima di lui hanno fallito. Da ultimo il duo Monti-Fornero che sul lavoro ha creato più problemi di quanti abbia contribuito a risolvere.
Il testo dell’emendamento approvato al Senato in Commissione Lavoro lascia pochi margini di dubbio. Sull’art. 18 sarà battaglia vera. Una battaglia in campo aperto e giocata in prima persona dal Presidente del Consiglio. Non tanto e non solo per la definitiva rottamazione di quei blocchi sociali di conservazione che comprimono le energie e le forze più vitali di un Paese che vuole voltare pagina e lasciarsi alle spalle veti e ideologie. Sull’art. 18 Renzi pare in effetti puntare molto più in alto. È una questione di leadership: non solo del suo partito ma di una intera nazione.
E per noi italiani? Dopo tutto quanto è successo in passato, ne vale davvero la pena? Gli esperti sanno bene che le normative in materia di licenziamento non sono il vero problema del mercato del lavoro italiano e che non sarà certo l’abrogazione dell’art. 18 a garantire nuova occupazione. Se però, per lavoratori e imprese, il superamento dell’art. 18 può davvero rappresentare, a livello simbolico, il segnale che una stagione è finita allora ha certamente senso accettare la sfida di Matteo Renzi. A una condizione però: che l’abrogazione sia totale e non si proceda sulla linea di compromesso tracciata dal pasticciato emendamento della Commissione Lavoro che poco o nulla cambia se non introducendo, nel già deficitario mercato del lavoro italiano, una nuova e più odiosa forma di apartheid: quella tra nuovi e vecchi assunti.
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
* Pubblicato anche in Panorama, 25 settembre 2014 con il titolo L’articolo 18 è un simbolo che va abbattuto.