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Bollettino ADAPT 28 febbraio 2022, n. 8
La comunicazione politica e istituzionale del Reddito di cittadinanza è da sempre caratterizzata da un’ambiguità di fondo dovuta alla doppia natura della misura: di contrasto alla povertà e al contempo alla disoccupazione.
Nato da una intuizione sul tramonto della centralità del lavoro salariato e quindi legato all’idea di un reddito di base incondizionato, l’idea del Reddito di cittadinanza è poi andata modificandosi a causa dei limiti di una sua diretta implementazione. Già la versione comparsa nel programma elettorale Cinquestelle del 2017 presentava una modifica fondamentale: il legame con le politiche attive, inizialmente espresse con la promessa di rifinanziamento dei centri per l’impiego. Promessa poi perfezionata con l’ideazione della figura del navigator e la condizionalità che trasformava il c.d. Reddito di cittadinanza in un reddito minimo condizionato. Oggi che tale promessa è smentita dai dati, si osserva il tentativo di sottolineare soprattutto il ruolo giocato dal Reddito di Cittadinanza nel contrasto alla povertà. Paradossalmente dunque proprio quella povertà che in un passaggio ormai celebre dell’ex ministro Luigi Di Maio era stata dichiarata abolita diventa la giustificazione principale con la quale si cerca di migliorare la percezione sociale della misura. Che però non è stata modificata nel suo impianto fondamentale, mantenendo le condizioni che hanno alimentato l’ambiguità della sua proiezione pubblica.
È questa la ricostruzione che si può svolgere, in chiave retrospettiva, a partire dal report pubblicato dall’Inps il 18 febbraio 2022, riguardante i primi tre anni di erogazione, che ha raggiunto 2 milioni di nuclei familiari e quasi 4.7 milioni di persone.
Da subito l’allora governo giallo-verde, ed in particolare la sua anima Cinquestelle, aveva voluto sottolineare la natura ibrida del Reddito di Cittadinanza nella sua versione concreta (quindi già diversa dall’idea di un reddito universale di base): non solo una misura di contrasto alla povertà, né solo una misura di riattivazione di inattivi e/o di ricollocazione dei disoccupati. Una misura non assistenzialista dunque, ma con un forte collegamento tra il pilastro assistenziale e il pilastro delle politiche attive volte a portare (o riportare) i beneficiari dell’Rdc nel mercato del lavoro.
Questo secondo pilastro aveva dunque anche una funzione elettorale, era volto a favorire l’accettazione sociale del Reddito di Cittadinanza, garantendo che il sussidio non sarebbe stato destinato a degli “infaticabili fannulloni”.
Lo si capisce bene anche risalendo al video di presentazione mostrato per la prima volta dall’allora ministro delle politiche del lavoro Luigi Di Maio durante la giornata di presentazione del sito del Reddito di cittadinanza, il 4 febbraio 2019. La prima immagine che compariva presentava così il Reddito: “un aiuto per formarsi, trovare lavoro e per tornare attivi nella società”.
Quasi due anni dopo, un sondaggio condotto da Ipsos riportava come tra gli italiani prevalessero i giudizi negativi, con il 53% dei rispondenti a cui il Reddito non piaceva. Un disallineamento che non coincideva dunque solo con l’area del centrodestra e dagli elettori renziani, ma si estendeva oltre.
A influenzare il giudizio registrato nel novembre scorso erano state probabilmente anche le varie notizie dei cosiddetti “furbetti del reddito di cittadinanza” emerse dai controlli della Guardia di Finanza: beneficiari che percepivano il sussidio nonostante non ne avessero i requisiti.
A contribuire all’impopolarità del Rdc era però ormai anche il progressivo sbilanciamento sul pilastro assistenziale dovuto al mancato avvio delle politiche attive del Reddito. Le quali avevano a dire il vero conosciuto da subito un avvio a dir poco malaugurante con il dimezzamento del numero dei navigator previsti che in breve era passato da 6.000 a 3.000, prima ancora che i nuovi incaricati prendessero servizio.
C’è però un dato evidente nel dibattito pubblico contemporaneo che fa riflettere. Ultimamente, nemmeno la stampa più ostile alla misura mette oggi in discussione il fatto che il Reddito di Cittadinanza abbia avuto effetti positivi sul contenimento della povertà. Molto criticata invece resta la promessa mancata di riattivazione e accompagnamento al lavoro dei beneficiari.
A questo equilibrio di giudizio potrebbe aver concorso l’endorsment del Presidente del Consiglio Mario Draghi il quale aveva dichiarato di condividere “in pieno il concetto alla base del Reddito di cittadinanza”. Ma soprattutto, è la sofferenza economica portata dalla pandemia ad aver aumentato la sensibilità dell’opinione pubblica verso le politiche di contrasto della povertà. Resta il fatto che si tratta di un assunto tanto consolidato da aver permesso a Rdc di resistere agli scandali particolarmente odiosi dei cosiddetti furbetti.
Non è allora forse un caso che il report dell’Inps, che è ancora presieduto da uno dei padri della misura, Pasquale Tridico, inizi definendo il Reddito di Cittadinanza in modo diverso rispetto agli albori: “Il Reddito di cittadinanza (Rdc) è una misura di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza, all’esclusione sociale, che prevede anche, per una parte dei beneficiari, il collegamento con politiche attive del lavoro”.
La prospettiva è dunque ribaltata rispetto alla comunicazione politica iniziale: le politiche attive sono un di cui dell’impianto del Reddito di Cittadinanza, e riguardano solo una parte dei beneficiari. Le politiche attive sono qui molto ridimensionate anche rispetto a quanto si capisce leggendo la presentazione del reddito di Cittadinanza sul sito dell’Inps, che recita “Il Reddito di Cittadinanza (RdC), introdotto […] come misura di contrasto alla povertà, è un sostegno economico finalizzato al reinserimento nel mondo del lavoro e all’inclusione sociale”.
D’altronde, anche se il Reddito di cittadinanza volesse essere nei fatti qualcosa di diverso, dovrebbe fare i conti con il fatto, riportato dallo stesso Report dell’Inps, che su 100 percettori del reddito di cittadinanza il 40% non è occupabile in quanto minorenne, anziano, disabile, disoccupato. Il restante 60% è “occupabile” ma solo in teoria, in quanto il 14,6% non è mai stato occupato, e il 24,9% ha avuto un lavoro, ma prima del 2017 (il che significa che quando ha cominciato a percepire il Reddito di cittadinanza già non lavorava, almeno con le carte in regola, da due anni). Per molte di queste persone inoltre, la sfida non è quella del reinserimento lavorativo, ma quella del reinserimento sociale.
Solo il 19% è rappresentato da coloro che hanno lavorato recentemente. E solo per questo 19% sarebbe dunque ipotizzabile pensare a politiche attive dall’alta efficacia, ossia che raggiungano l’obbiettivo della rioccupazione con poco sforzo.
Ne risulta dunque che circa il 70% dei beneficiari abbia percepito il reddito di cittadinanza per almeno due anni, tra aprile 2019 e dicembre 2021.
Stando così le cose è lecito domandarsi una cosa: l’accettazione sociale del Reddito di cittadinanza non migliorerebbe sensibilmente se la comunicazione politica e istituzionale inquadrasse il reddito di cittadinanza come misura sociale volta esclusivamente al contrasto alla povertà, lasciando lo sviluppo delle politiche attive ad altre misure?
I correttivi al Reddito di cittadinanza varati dal governo Draghi non sembrano andare in questa direzione dal momento che non ne hanno modificato l’impianto fondamentale, ma hanno rafforzato la condizionalità riducendo per esempio da tre a due le offerte congrue di lavoro che se rifiutate portano alla decadenza dal beneficio (per in quadro ragionato dei correttivi, si veda il WP ADAPT di Silvia Spattini).
Va da sé allora che, mantenendo il Rdc questa complessità, maggiore dovrà essere lo sforzo di chiarezza della comunicazione politica e istituzionale nel rendere comprensibile il bilancio tra costi e benefici del reddito di Cittadinanza in relazione alle sue dichiarate funzioni.
Ricercatore LUMSA